In un contesto economico e sociale sempre più interconnesso e fragile, ritengo fondamentale soffermarsi su alcuni principi che, oggi più che mai, devono guidare ogni visione imprenditoriale consapevole: la tutela della filiera, l’impegno concreto verso la sostenibilità ambientale e la necessità di analizzare con spirito critico l’impatto delle politiche commerciali globali. Sono temi che non possono più essere considerati separati dai risultati di bilancio o dalle performance di mercato: rappresentano, piuttosto, i pilastri su cui si costruisce il valore reale e duraturo di qualsiasi attività economica.
Tutela della filiera significa molto più che garantire continuità produttiva, rappresenta un valore fondante e una responsabilità quotidiana. Vuol dire riconoscere e proteggere il lavoro, le competenze, i territori, le relazioni che rendono possibile ogni progetto. È un impegno verso l’integrità, la trasparenza e il rispetto dei diritti lungo tutto il percorso che conduce un’idea a diventare prodotto. Significa valorizzare l’etica del lavoro, garantire condizioni eque, preservare la qualità come risultato di relazioni sane e durature. Nel 2017 Mattioli ha, ad esempio, ottenuto la certificazione Chain of Custody (CoC) per l’intera filiera dell’oro, certificazione che garantisce l’adozione di procedure di estrazione e lavorazione responsabili in tutta la catena di produzione e l’impegno a garantire la tracciabilità dell’oro. Inoltre, la nostra adesione al Responsible Jewellery Council e il rispetto dei dettami del Kimberley Process per la selezione dei diamanti testimoniano l’impegno concreto nel garantire la tracciabilità e la responsabilità sociale lungo tutta la catena di fornitura.
Parallelamente, la sostenibilità ambientale non può più essere un’opzione. Credo che la capacità di un’impresa di durare nel tempo dipenda anche da come sa relazionarsi con l’ambiente in cui opera. Ogni scelta produttiva, ogni decisione logistica, ogni investimento in ricerca e sviluppo deve tener conto dell’impatto che genera sul pianeta. Questo comporta uno sforzo importante, spesso complesso, ma assolutamente necessario: rivedere modelli, aggiornare processi, adottare tecnologie più efficienti, ridurre gli sprechi. Non si tratta di rincorrere una tendenza, ma di accettare una responsabilità storica: contribuire, con coerenza, alla transizione verso un’economia più giusta e rigenerativa.
In questo quadro, le dinamiche politiche internazionali giocano un ruolo determinante. Le politiche commerciali adottate durante l’amministrazione Trump, caratterizzate da un forte orientamento protezionista, hanno generato contraccolpi significativi sugli equilibri economici globali. La scelta di innalzare barriere doganali, rinegoziare accordi multilaterali e ridurre la cooperazione internazionale ha provocato un irrigidimento delle relazioni tra Stati, una frammentazione delle catene di approvvigionamento e un aumento generalizzato dell’incertezza per imprese e mercati. È stato un passaggio che ha messo in evidenza quanto l’interdipendenza tra economie sia, in realtà, un fattore strutturale, non arginabile con misure unilaterali.
Serve un approccio aperto, collaborativo, capace di favorire il dialogo tra pubblici e privati, tra Paesi e culture, tra generazioni. Un modello che sappia combinare crescita economica e giustizia sociale, innovazione e memoria, competitività e rispetto. Credo fermamente che oggi la leadership d’impresa debba assumersi anche un ruolo culturale, non solo gestionale.
Bisogna saper leggere il tempo in cui si vive, comprenderne le complessità e restituire con coraggio e coerenza una visione che metta al centro valori condivisi. Solo così l’impresa può contribuire in modo autentico al progresso collettivo. Solo così possiamo immaginare un domani in cui sviluppo economico, equilibrio ambientale e dignità del lavoro non siano in contraddizione, ma parte di un’unica, necessaria direzione.