Alla seconda tavola rotonda del Convegno dal titolo “Verso una nuova politica economica europea: le sfide dell’impresa” hanno partecipato Lucia Aleotti, Cavaliere del Lavoro e presidente di Pharmafin Menarini Gruppo Holding; Marco Bonometti, Cavaliere del lavoro e presidente di Officine Meccaniche Rezzatesi; Laura Colnaghi Calissoni, Cavaliere del Lavoro e presidente e Ad del Gruppo Carvico; Daniel Gros, direttore dell’Institute for European Policymaking dell’Università Bocconi e Bruno Veronesi, Cavaliere del Lavoro e presidente Emerito AIA.
ALEOTTI: “L’Europa metta la competitività al centro”
Parafrasando Spinelli, che diceva “l’Europa non cade dal cielo”, io dico che anche l’industria non cade dal cielo. L’industria esiste se è competitiva, perché se non è competitiva va fuori mercato. Se è competitiva lo decidono i mercati globali, non lo decidono le norme, non lo decidono i regolatori, lo decidono gli acquirenti.
Venendo al mio settore: l’industria farmaceutica a che cosa serve? La domanda è facile, la risposta è facilissima: serve a creare farmaci per curare le persone, per fare sì che le persone stiano in salute, affrontino patologie che oggi magari non sono affrontate.
Cosa mi aspetto da una politica industriale, ad esempio, per il mio settore che venga dal nostro continente? Mi aspetto qualcosa che ci aiuti a raggiungere questo obiettivo, invece abbiamo avuto, negli ultimi 12 mesi, proposte di taglio della proprietà intellettuale sui farmaci, quindi della durata della proprietà intellettuale che diventerebbe la più breve del mondo. Gli Stati Uniti non hanno questa riduzione, la Cina non ha questa riduzione, tagliamo la proprietà intellettuale così i farmaci si possono copiare prima e quindi i copiatori fanno abbassare i prezzi. Ma si vuole l’innovazione o si vogliono le copie? Altra norma che è stata approvata: l’obbligo per il settore farmaceutico e quello cosmetico di disinquinare l’80% dei fiumi europei, ma non perché con le nostre produzioni buttiamo inquinamento nei fiumi, no, perché il paziente con il suo metabolita quando va in bagno, si ritrova un po’ di farmaco.
In America c’è questa norma? In Cina c’è questa norma? In India c’è questa norma? Sono 12 miliardi di euro l’anno che le imprese farmaceutiche che operano in Europa dovranno pagare. Significa: oneri che vengono dalla riduzione della proprietà intellettuale, dagli obblighi di disinquinamento, dall’obbligo – altra invenzione recente –, di fare dei mega stock per essere pronti a fornire i pazienti in caso di carenze. Oneri di qua, oneri di là, siccome non stampiamo i soldi, alla fine dobbiamo rinunciare, ad esempio, ad assumere ricercatori. Meno ricercatori meno farmaci, meno competitività, meno obiettivo di fare salute.
Purtroppo, la sostanza della politica industriale, che dovrebbe essere rendere le aziende più competitive, non c’è. Durante il Covid l’Europa ha agito bene, nel senso che ha comprato i vaccini, ha fatto una grande politica di vaccini, ma il vaccino Pfizer è un vaccino Pfizer-BioNTech. BioNTech era un’azienda tedesca, l’Europa l’ha guardata andare via dall’Europa e andare nelle mani di un’azienda americana, che poi ha venduto decine di miliardi di vaccini con una tecnologia europea.
L’Europa deve occuparsi di più di produzione e non guardare solo al mercato perché è questo che dà poi lavoro, dà ricchezza e dà protezione sociale ai nostri ragazzi. L’Europa non mette la competitività delle imprese al centro delle sue politiche. Ma le imprese non competitive vengono spazzate dal mercato globale e se ci portano via le imprese europee ci ritroveremo un continente più povero.
È fondamentale parlare di salari, di protezione del lavoratore, ma bisogna avere il lavoratore prima. Il lavoratore, il lavoro, questi sono gli elementi non negoziabili su cui l’Europa deve tenere la barra drittissima.
BONOMETTI: “Dobbiamo proteggere le fabbriche”
Quando andavamo a scuola sognavamo gli Stati Uniti d’Europa. Dico questo perché i ritardi della Ue, in termini di competitività e di produttività, stanno mettendo in ginocchio il mondo industriale. E qui, voglio parlare delle fabbriche, perché la nostra forza sono le fabbriche, sono le donne e gli uomini che lavorano alle fabbriche, sono le opportunità di lavoro. È il lavoro che manca e purtroppo non si sta facendo niente in Europa. Prima di far crescere le aziende, cerchiamo di non farle morire, perché il rischio oggi è che muoiano le fabbriche in Europa.
Purtroppo, il settore dell’automotive in Europa è veramente in una grande crisi, che è sotto gli occhi di tutti. Se continuiamo di questo passo, vedremo un crollo della domanda, vedremo milioni di posti di lavoro persi e soprattutto il declino industriale. Il mercato dell’auto in Europa, che contribuisce al 7% del Pil, viene spazzato via. Mentre gli altri paesi, Cina e Usa, di fronte a questa trasformazione hanno adottato politiche industriali forti per la competitività e per la produttività, l’Europa non sta facendo nulla. Non possiamo più rimandare.
Quest’anno, il 2025, è l’anno delle decisioni importanti e se non si avrà il coraggio di prendere decisioni lungimiranti, chiare, precise e veloci, chiuderemo un settore strategico. Io che sono presente in cinque continenti, il problema lo vedo solo in Europa, nel resto del mondo le cose stanno andando bene.
In Europa è da cinque anni che il mercato non cresce. L’anno scorso sono state vendute 15 milioni di auto contro i 19 milioni del 2020. La Cina quest’anno venderà tante macchine quante se ne vendono in Europa e in Usa. Vuol dire che noi stiamo attraversando un declino industriale per quanto riguarda la fabbrica, il manifatturiero.
Innanzitutto, vanno cancellate le multe per l’emissione di CO2 , non basta sospenderle. Vanno cancellate perché le case costruttrici devono avere la possibilità di programmare gli sviluppi. Oltretutto rischiamo di andare a finanziare i nostri concorrenti cinesi e americani e così dreniamo risorse per la ricerca e lo sviluppo. Secondo: vanno definiti i criteri di misurazione di emissione di CO2.
Non si può più misurare l’emissione dal serbatoio alla ruota. L’emissione va misurata per tutta la vita utile della vettura.
Terzo, emissioni zero, anche con l’auto elettrica, non esistono. Va cancellato il “Fit for 55”. Nel 2035, se verranno realizzate regole Ue, metteremo al bando un determinato prodotto e un determinato modo di produrre. Noi siamo per la libertà, aprire a tutte le tecnologie. In questi anni c’è stata una grossa evoluzione, dall’idrogeno al biofuel ai nuovi motori con emissioni zero.
Attenzione, stiamo parlando del problema delle emissioni quando in Europa il settore della mobilità incide per l’1%. Basterebbe rinnovare in Europa i 250 milioni di auto che hanno 12 anni, 19 addirittura in Grecia, e noi ridurremmo subito il contributo di emissione di CO2 . E lo stesso in Italia. Dovrebbe essere incentivata la rottamazione, così incentivi e riattivi la vendita e dai lavoro alla gente. È per quello che bisogna lanciare un’auto popolare. Vedo che anche i costruttori stanno seguendo queste impostazioni, perché forse è la prima volta che fra i costruttori e i componentisti troviamo un punto d’incontro. C’è il problema dell’energia perché tutto questo problema è nato perché, dopo il Dieselgate, avevamo detto che nel 2030 avremmo avuto l’energia pulita.
Allora bisogna investire sulle rinnovabili, sulle nuove centrali a bassa emissione di CO2 , ma soprattutto bisogna potenziare la disponibilità di energia e definire il prezzo. Le aziende europee non possono pagare un prezzo così alto. In tutte le altre parti del mondo l’energia co sta la metà.
COLNAGHI CALISSONI: “At tenti ai costi di energia e green”
In Europa il tessile è il secondo mercato, dopo l’automotive. In Italia fatturiamo circa 70 miliardi con ben 40mila aziende e 400mila addetti; l’export vale il 70% di quello che produciamo e va soprattutto ne gli Stati Uniti e in Cina.
L’Italia rappresenta il 40% della produzione europea nel tessile, che ha un fatturato di 170 miliardi, coinvolge 200mila aziende, con 1,3 milioni di addetti.
Purtroppo, in Italia paghiamo un’energia che è più cara di tutto il resto, non solo del mondo, ma dell’Europa. Ormai nel conto economico della mia azienda l’energia pesa per il 12%, quindi è difficilissimo oggi essere competitivi con un’energia che costa così cara.
Poi abbiamo la sfida green che ci obbliga a determinati criteri di produzione, che sono molto costosi, perché noi siamo costretti a produrre in modo molto sostenibile con ricicli di acqua, abbattimento fumi, utilizzo di fili riciclati. Tutto questo costa moltissimo e ci mette in difficoltà rispetto alla concorrenza, soprattutto del Sudest asiatico. Oggi il problema è come riuscire a bilanciare la protezione di questo settore con la necessità di rimanere aperti al commercio globale. Poi il problema grave, che vedo molto presente, è che con questa amministrazione americana i prodotti cinesi, che di fatto arrivavano sul mercato americano, avranno, penso, qualche problema. E non sappiamo come finirà la guerra dei dazi.
Il 2 aprile ero in Vietnam, dove abbiamo un’azienda per raggiungere mercati che dall’Italia noi non riuscivamo a raggiungere, compresi gli Usa dove la nostra azienda vietnamita esporta il 70%. Quando Trump ha annunciato i dazi, che col Vietnam erano del 47%, per tutta la notte nessuno ha dormito perché continuavamo a ricevere telefonate dai nostri clienti americani che, ovviamente, si dicevano molto preoccupati e che cancellavano ordini. Spero che attraverso Euratex, l’organizzazione tessile europea, si riesca a contenere l’ingresso in Europa di prodotti che non rispettano gli stessi nostri criteri di produzione. Altrimenti rischiamo la desertificazione di tutta la filiera tessile in Italia e in Europa.
VERONESI: “Puntiamo sulla formazione tecnica”
La formazione, soprattutto la formazione tecnologica nelle materie Stem, è importantissima per lo sviluppo del sistema economico europeo. Io sono nato come imprenditore negli anni ’70 e quello che ho portato all’azienda è stato proprio il fatto che avevo una preparazione tecnica. Sono laureato in economia e commercio, ma prima avevo fatto il perito industriale.
Faccio un esempio: nei primi anni ’80 ero entrato in un’azienda che si chiama AIA e che andava male, nessuno della famiglia voleva andare in questa azienda. Io, ultimo dei fratelli, ci sono dovuto andare. Avevamo un concorrente fantastico che era Arena, Pollo Arena, che fatturava quasi mille miliardi di lire, che sembrava irraggiungibile. Un prodotto che ha risolto il problema economico della nostra azienda è stato Wudi, il primo wurstel di pollo in Europa. Ho visto in America queste attrezzature, loro facevano 40 quintali all’ora con quattro persone all’inizio e quattro alla fine; noi avevamo 50 persone per fare la stessa cosa e l’investimento era pazzesco, viste le dimensioni che avevamo allora.
Però ci ho creduto nonostante una ricerca di mercato fatta in azienda suggerisse il contrario. Invece è stato un successo enorme, che ha risolto i problemi economici della nostra azienda e ha dato il via poi a una serie di altri prodotti che ci hanno differenziato dai concorrenti e ci hanno portato ad essere vincenti. Oggi AIA fa circa quattro miliardi di fatturato con 11mila dipendenti e quindi vuol dire che ha fatto veramente uno sviluppo enorme in pochi anni.
La preparazione tecnica è una cosa importantissima, secondo me, che viene trascurata in Italia. Tutti i nostri giovani sono attratti da materie come marketing, comunicazione e invece la preparazione tecnica è quello che la Cina ha, l’India sta facendo rispetto al resto del mondo. Ci vuole più preparazione tecnica.
Se guardiamo anche la storia dei Cavalieri del Lavoro, vediamo che tutto il mondo usa parole italiane nella radio, no? Si usa volume, radio, antenna, tutto il mondo usa queste parole. Ma perché? Perché Guglielmo Marconi, che era un tecnico, ha fatto una scuola che non c’era allora – perito tecnico – ma era una scuola tecnica di Livorno, e ha appreso queste nozioni tecniche di elettrotecnica, di onde radio e ha fatto una cosa rivoluzionaria che tutto il mondo ci invidia. E lui è diventato anche un grandissimo imprenditore, tanto che è stato fatto Cavaliere del Lavoro nel 1928.
Questo lo dico sempre: facciamo fare le scuole tecniche ai nostri figli, matematica o ingegneria, tutto quello che crea innovazione e che fa vedere l’innovazione, pur costosa, come una cosa che invece porta grandissimo vantaggio all’azienda.
L’Europa aiuti di più l’industria. Noi siamo in Usa da tre anni, abbiamo fatto un’azienda nuova funzionante in tre anni: dal terreno che ci hanno donato alla costruzione completa è passato un solo anno.
Qui in Italia abbiamo impiegato sette anni per avere l’autorizzazione a costruire un’azienda in quel di Verona, a Zevio, e dopo sette anni è cambiato il mercato, i concorrenti sono cresciuti, abbiamo chiuso questo investimento.
In America il progettista, l’ingegnere, conosce tutte le leggi, firma lui tutte le norme e funziona. Basterebbe copiare quello che fanno i paesi più evoluti.
GROSS: “L’Europa sostenga i settori ad alta tecnologia”
Quel che ha fatto perdere terreno all’Europa è una mancanza di capacità di cambiamento per adeguarsi alle grandi sfide tecnologiche e commerciali: è quello che abbiamo chiamato la “trappola della media tecnologia”.
L’industria europea è specializzata in settori tecnologici a media tecnologia come l’automotive e in questi settori non c’è nessuna differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa, anzi forse l’Europa è avanti, visto che negli ultimi dieci anni negli Usa la produzione industriale è stata piatta. Allora perché il Pil cresce di più negli Stati Uniti? Perché loro hanno un’altra gamba che da noi non c’è: è l’high-tech.
L’high-tech non nasce da solo, sono idee nuove che si sono potute affermare nel mercato, basate naturalmente prima sulla ricerca e innovazione e questo non si improvvisa. Il settore del software era già presente vent’anni fa, ma allora era senza importanza; oggi invece fa la differenza. Definirei settori high tech semplicemente come quelli in cui le imprese investono più del 10% del fatturato in ricerca e innovazione. Le nostre imprese nei settori high-tech si comportano come le imprese americane, in vestono il 4-5% 6% del fatturato in ricerca e innovazione, solamente che noi non abbiamo abbastanza imprese nei settori ad alta crescita. Allora, che cosa vogliamo fare? Vogliamo proteggere quello che esiste e che ci condanna a un’altra generazione di bassa crescita, mentre i settori high-tech stanno altrove.
Vi confesso che sono un po’ preoccupato perché quello che ho sentito finora è conservare quello che abbiamo. Ma questo ci condanna a lungo termine. Allora, se dovessi dire dove mettiamo la nostra politica industriale e i pochi soldi che abbiamo, non li metterei sulla conservazione di quello che esiste: bisogna, tutt’al più, aiutare il cambiamento, questo sì, ma puntando tutti i soldi sui settori nuovi. Per favorire ricerca e sviluppo ci sono idee, anche in Italia, per esempio investire di più in startup, facilitando il loro accesso al credito, queste due cose. Non ci vuole molto, molto meno che mantenere in vita un’acciaieria a Taranto, ma queste sono scelte che vengono fatte ogni giorno e per il momento vanno sempre nella direzione sbagliata.
Capisco che può sembrare un discorso duro ma qual è l’alternativa? Possiamo diventare tutti poveri oppure avere almeno alcuni che ce la fanno e trainano gli altri. È interessante notare come siano i piccoli paesi europei ben governati che stanno alla punta del progresso tecnologico e che hanno anche più uguaglianza. Prendiamo il modello danese: proteggono, non il posto di lavoro, ma il lavoratore. Per questo abbiamo bisogno di un’Europa che aiuta il cambiamento, lo facilita, ed evita le regole che lo rallentano.
Tuttavia, il 90% delle regole che ostacolano l’impresa sono regole nazionali, ma se l’Europa poi mette l’accento di più sull’innovazione permettendo, anche con le regole, che questa innovazione sia applicata, questa è un’Europa che può rimanere molto competitiva sul mercato globale.