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Tra sicurezza e crisi dell’industria, L’EUROPA È AL GIRO DI BOA | Civiltà del Lavoro 3/2025

01.09.2025

Alla terza tavola rotonda intitolata “Nuove istituzioni per governare la competitività” sono intervenuti Rosa Balfour, direttrice Carnegie Europe; Franco Bernabè, Cavaliere del Lavoro e presidente dell’Università di Trento; Antonio D’Amato, Cavaliere del Lavoro e presidente e Ad Seda International Packaging Group; Michl Ebner, Cavaliere del Lavoro e presidente e amministratore del Gruppo Atesia, Nicoletta Pirozzi, responsabile del Programma dell’Ue Politica e Istituzioni, oltre che responsabile delle Relazioni Istituzionali dell’Istituto Affari Internazionali.

BALFOUR: “Mancano le condizioni politiche per il cambiamento”
Vorrei fare il punto sul contesto internazionale perché il punto chiave è: non è come prima. Dalla Seconda guerra mondiale ad oggi, un momento internazionale così pericoloso non lo abbiamo visto.
Abbiamo una concomitanza di fattori che rischiano di distruggere l’ordine mondiale così come lo conosciamo. Il primo è che un membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso di infrangere l’integrità territoriale di un altro Stato.
Il secondo è che abbiamo un presidente americano, che spesso dice di contemplare la possibilità di compiere annessioni territoriali come quelle della Crimea, quindi Canada, Groenlandia, Panama eccetera.
Abbiamo quindi un contesto internazionale in cui l’ordine mondiale stabilito dopo la Seconda guerra mondiale è messo in discussione da potenze revisioniste. L’Ue è cresciuta sulla base di quell’ordine mondiale. L’Ue ha utilizzato l’idea, il concetto di interdipendenza come fonte di ricchezza, fonte di pace e fonte di democratizzazione e questo non solo è messo in discussione, ma adesso quella stessa interdipendenza viene strumenta lizzata e viene usata come strumento coercitivo di in terferenza nelle economie e nelle società di altri paesi, strumento di ricatto.
Questo è il contesto internazionale in cui l’Ue si trova. È un cambiamento, è un momento di trasformazione dell’ordine mondiale e la domanda è: l’Ue e l’Europa, un po’ più ampiamente parlando, vuole far parte di una ridefinizione di questo ordine mondiale oppure vuole essere soggetta alla ridefinizione da parte di altri? Questa è la domanda insieme a tutte le problematiche sul rinnovamento economico di cui abbiamo parlato oggi. Le risposte le abbiamo già perché ci sono tre rapporti che sono stati pubblicati l’anno scorso: il Rapporto Letta, il Rapporto Draghi e il Rapporto Niinistö.
Sono tre documenti che hanno un’infinità di raccomandazioni di policy che andrebbero messe in atto. Il problema è che non ci sono le condizioni politiche, ora come ora, o comunque non sembrano esserci le condizioni politiche per poter mettere in atto questa agenda di cambiamento e di trasformazione. E lì si tende a dare la colpa all’Ue e alle istituzioni europee.
Le istituzioni europee non sono un deus ex machina, la vorano sulla base del consenso, lavorano anche sulla base delle energie e delle idee che vengono dagli Stati membri e ce ne sono poche di energie e di idee che vengono dagli Stati membri.
C’è poco interesse a lavorare in maniera più cooperativa, le istituzioni faticano a mettere insieme un consenso che permetta di andare avanti e abbiamo, in tutti i paesi europei, grandi problemi di governabilità.
Abbiamo maggioranze risicate, che sono al governo in vari paesi europei, governi che durano sempre meno perché crollano per conflittualità interne, elettorati polarizzati, anche con interferenze da parte di potenze straniere, quindi abbiamo un vero problema politico.
Se vogliamo andare a guardare l’ordine di intervento, come fare per cambiare le cose, forse bisogna in realtà partire proprio dalla politica e trovare idee nuove per poter cambiare il modo di governare l’Europa.

BERNABÉ: “Abbiamo le capacità, mettiamoci al lavoro”
La responsabilità di quello che succede in Europa è sostanzialmente nostra. Diceva Julio Velasco, il famoso allenatore di pallavolo femminile, che “chi vince festeggia e chi perde spiega”. Noi siamo sempre lì a spiegare perché le cose non funzionano e invece dobbiamo agire noi proattivamente.
Anche la politica ha tirato fuori un sacco di idee. La stessa von der Leyen, che si muove con grande prudenza, nei discorsi che ha fatto recentemente, quello per l’assegnazione del Premio Carlo Magno e nei discorsi precedenti, ha fatto un lunghissimo elenco di cose che si possono fare per rendere più competitiva e più veloce l’azione dell’Ue, per aumentare la produttività, per incrementare la competitività dell’Europa.
Lo stesso ha fatto Mario Draghi, che ha scritto quel bellissimo documento, che è il progetto per un’Europa più competitiva. Ci sono due parti: la parte A, più politica, e la parte B, di grandissimo dettaglio sui singoli settori, dove risolve tutti i problemi che ci sono. Poi a un certo momento, in un inciso, dice: “Servono 800 miliardi per risolverla”. E qui i giornali si sono dimenticati di tutte le ricette e si sono concentrati sugli 800 miliardi.
Qualche numero, secondo me, molto indicativo: l’Europa ha uno stock di 33mila miliardi di risparmio, 13mila miliardi di questo risparmio stanno seduti sui conti correnti bancari dei cittadini europei. Noi ci facciamo ricattare da Trump? Noi abbiamo investito in titoli di Stato e in titoli delle imprese americane 13mila miliardi di euro e ogni anno diamo 2.700 miliardi di euro per consentire agli americani di spendere e spandere, di consumare, di investire. Ma, insomma, vogliamo guardare in casa nostra e rivendicare con una forma di orgoglio le nostre capacità, i nostri valori e mettere al lavoro le nostre risorse per far crescere l’Europa?
Noi qui abbiamo una platea di investitori. Voi sapete com’è difficile fare impresa in Italia (…) eppure ci sono gli imprenditori in Italia. È difficilissimo, è complicatissimo, ma si può fare. Le soluzioni ci sono e bisogna trovare il modo di lavorare assieme per risolvere i problemi. Ci sono tante cose che abbiamo sbagliato e dobbiamo anche prenderci alcune colpe. Condivido il discorso di Bonometti: l’Europa ha sbagliato completamente per quanto riguarda le politiche dell’automotive (…).
Noi abbiamo la capacità intellettuale, le risorse finanziarie, la capacità di ricerca. Dobbiamo mettere al lavoro le risorse che abbiamo perché possiamo farcela e oggi è il momento giusto per farcela.
Parliamo tutti di Elon Musk. Devo dire, modestamente, che avevo previsto quattro, cinque mesi fa che sarebbe andata a finire così. Trump, Elon Musk lo farà fallire. Elon Musk ha avuto 70 miliardi di sussidi pubblici dallo Stato e per questo Trump lo farà fallire, perché glieli toglierà. Noi non abbiamo niente da invidiare a questi personaggi. Negli Stati Uniti c’è anche un sacco di gente che vende fumo, noi non dobbiamo preoccuparci di loro. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che noi non abbiamo la tecnologia. Ma chi l’ha detto che non abbiamo la tecnologia? L’high-tech ce l’avevamo (…). Non dobbiamo avere paura di niente, dobbiamo solo rimboccarci le maniche.

D’AMATO: “In Europa è in corso la deindustrializzazione”
L’Europa da vent’anni è in decrescita (…). Tutto questo è iniziato quando l’Europa ha cominciato a diventare sempre più autoreferenziale e a pensare che impedendo la creazione di campioni, non solo nazionali ma europei, noi potessimo contribuire alla salvezza del pianeta – lasciando liberi invece tutti quanti gli altri di competere senza alcuna regola e portando avanti un processo di reale deindustrializzazione –, noi potessimo difendere la nostra qualità della vita, il nostro stato sociale, pensando in maniera arrogante che fossimo ancora gli unici detentori dell’intelligenza, della capacità di ricerca, di sviluppo, della qualità della vita, dello standard di civiltà europea.
Ebbene tutto questo non è possibile. Noi abbiamo dimenticato la più importante ed elementare lezione del la storia dell’economia industriale, cioè che la manifattura e la ricerca e sviluppo camminano di pari passo (…).
Mentre affrontavamo la crisi del Covid, abbiamo lasciato via libera alla creazione di questo mostro del Green Deal che è stato in realtà un vero e proprio Black Deal; sono stati poi messi in campo una serie di provvedimenti, di regole, di iper-condizionamenti, che hanno ancora di più indebolito il sistema industriale europeo. Noi non abbiamo più alcuna industria di base in Europa. L’ultima fabbrica di base della chimica europea, quella della Versalis, è stata chiusa sei mesi fa. Non c’è più niente (…).
Da quando abbiamo accettato passivamente la logica del taglio lineare della CO2 , (…) abbiamo consentito la delocalizzazione di imprese di base a un metro dai confini europei, liberi di produrre con un dumping sociale, fiscale e soprattutto ambientale, con standard più bassi di quelli con i quali producevano in Europa e liberi di continuare ad importare.
Abbiamo una Commissione che negli ultimi quindici anni ha preso un totale sopravvento e predominio sul Parlamento. Una Commissione nella quale cambiano i vertici politici, cambiano le composizioni del Parlamento, ma non cambiano le strutture della Commissione.
Commissioni nelle quali abbiamo una quantità infinita di scorie ideologiche anti-industriali, soprattutto in alcune Commissioni, segnatamente la Envi che negli ultimi cinque o sei anni è diventata il centro e il motore reale della politica industriale europea, che continua a per seguire in maniera assolutamente tenace una visione di deindustrializzazione (…). Non sono interpretazioni o sensazioni, sono fatti.
Tutto questo, però, che cosa sta determinando? Sta determinando la crisi anche della politica in Europa. Perché nel momento in cui noi rendiamo disoccupati i nostri cittadini, nel momento in cui indeboliamo la capacità di difesa e di tenuta del ceto medio, corriamo i rischi che abbiamo imparato dalla lezione della storia del Novecento. Quando il ceto medio soffre e le classi lavoratrici non hanno più lavoro, scoppiano le guerre. Vediamo la polarizzazione tra l’estrema sinistra e l’estrema destra, in un’Europa che sempre di più litiga ed è sempre più incapace di essere equa.

EBNER: “La mia speranza? l’unione cresce con le crisi”
L’Ue è nata nel ‘57, fondata da governi. La storia dell’Ue è sempre stata improntata dai presidenti del consiglio e dai presidenti della repubblica, quella francese. Per cui l’Ue, il Parlamento europeo non sono paragonabili con un governo o con la combinazione delle istituzioni in uno Stato normale democratico (…). Abbiamo un parlamento che è eletto a suffragio universale, abbiamo una Commissione di burocrati, non di politici, anche se sono politici che occupano queste posizioni, e abbiamo un consiglio che è il plenipotenziario che, alla fine, fa il bello o il brutto tempo.
Questo in totale contrasto con quello che è stato citato oggi del Presidente Einaudi, che già nel ‘45 aveva capito che le cose dovevano andare in altro modo. E condivido completamente la posizione del collega Amato, quando dice che oggi la parte stabile nell’Ue è la burocrazia della Commissione perché quelli sono lì fissi (…).
Noi abbiamo fatto un altro grandissimo errore. Quando c’è stato l’allargamento, da 15 a 25, non abbiamo affatto prima l’approfondimento. Il Parlamento in tante sedute, in tanti documenti aveva chiesto, aveva cercato di imporre che prima bisognava fare l’approfondimento, perché chi vuole aderire a un club deve accettare le regole e non entrare e poi fare le regole. E con chi oggi abbiamo i maggiori problemi? Con alcuni paesi di quei dieci, non di quelli storici, non parliamo dei sei, ma neanche dei dodici, neanche dei quindici, li abbiamo adesso. Proprio per questo credo che il Parlamento si sforzi a portare più partecipazione diretta, però ha anche un altro limite, che non ha l’iniziativa legislativa perché ce l’ha solo la Commissione.
Questo è un vulnus che dovrebbe essere riparato velocemente, non ci siamo ancora riusciti anche se la cosa è stata portata avanti non so quante volte, per cui il Parlamento può dare impulsi, può portare la Commissione e il Consiglio sul tavolo attraverso il trilogo. È l’unica forza vera che il Parlamento ha, però non è l’arma vincente per cui una modifica delle regole sarebbe importantissima.
Non vedo, al momento, una situazione politica tale per fare un’altra convention come è stata fatta nel 2001-2003 in era vice presidente il nostro Giuliano Amato. Anche in quell’occasione era il Consiglio che aveva dettato le linee attraverso il presidente francese.
Io ho una speranza: questa Unione è cresciuta nei periodi di difficoltà, quando c’erano le crisi e noi attraversiamo adesso la crisi più grande dopo la fine della guerra del ‘45. Sono molto speranzoso e fiducioso che questo Parlamento ritorni a questa spinta di riforma, perché la riforma generale non viene dalla Commissione, non verrà dagli Stati membri, perché non c’è una testa, un personaggio, una personalità così forte da imporre una nuova iniziativa.
Deve essere il Parlamento a farla. Lì, qualche spiraglio, qualche albore si vede. Spero che ci si riesca, poi non hanno il voto toccasana né gli uni né gli altri; però portare le istituzioni europee a un normale rapporto tra i poteri di uno Stato democratico normale è un’iniziativa urgente, necessaria e doverosa per tutti quanti.

PIROZZI: “È ora di svegliarsi e mettere in sicurezza l’Europa”
I risultati delle elezioni nazionali che abbiamo vissuto nel super anno elettorale (…) hanno cambiato gli equilibri europei e fino a questo momento non siamo stati ancora in grado di ricostruirli per dare all’Ue quella spinta necessaria in avanti di cui abbiamo parlato.
In questa legislatura abbiamo una Commissione europea che è fortemente frammentata al suo interno; è stata una scelta strategica specifica della seconda presidenza von der Leyen questo spezzettamento dei mandati che, secondo me, rende poco chiare le competenze e poco identificabile la responsabilità politica.
Se prendiamo, per esempio, il Clean Industrial Deal, che è il nuovo progetto bandiera per la politica industriale, abbiamo tre commissari coinvolti: il francese Séjourné, l’olandese Hoekstra, la spagnola Ribera.
È chiaro che tutta questa frammentazione determina un accentramento del potere nella presidente della Commis sione von der Leyen che, da un punto di vista, può essere positivo, ma il problema è che nell’attuale composizione politico-istituzionale europea crea più danni che vantaggi. L’abbiamo visto, in parte, per quanto riguarda la questione della difesa. Anche in quel caso abbiamo visto un balzo in avanti della Commissione, quindi la proposta di “ReArm Europe”. Qual è il problema? (…). Possiamo di re che è parziale, possiamo dire che magari si è sbagliato il titolo, ma non possiamo demonizzarlo, perché in ogni caso è uno strumento che ci servirà ad acquisire le capacità, o almeno a mobilitare, alcune risorse necessarie per acquisire le capacità di difesa che ci servono in questo momento.
Quello che è mancato è tutto il resto. Noi abbiamo, in questo momento, una mancanza di iniziativa politica per riflettere sul tipo di difesa che stiamo costruendo, qual è l’orizzonte strategico che ci poniamo, che modello di difesa abbiamo in mente per l’Unione europea, che rap porti abbiamo in mente con l’Alleanza Atlantica, che tipo di capacità vogliamo costruire (…). Da tanti anni parliamo di questa famigerata autonomia strategica, di come arrivarci. Ci sono state anche diverse iniziative politiche da questo punto di vista, però ora siamo arrivati al momento cruciale.
Noi, in questo momento, abbiamo l’alleato americano che si sta disimpegnando dall’Europa e lo sta facendo in un momento in cui siamo sotto attacco diretto di una potenza ideologica imperialista che ha riportato la guerra sul continente europeo. Possiamo, forse, contare sull’art. 5, ma nemmeno ancora lo sappiamo con certezza.
È arrivato il momento di svegliarsi. Svegliarsi significa, da una parte, mettere in sicurezza l’Europa e quindi l’Ucraina. Abbiamo una necessità di trovare le risorse necessarie per portare avanti il nostro impegno di sostegno al governo ucraino, anche dal punto di vista militare. L’iniziativa “ReArm Europe” e altre vanno un po’ in questa direzione.
Dall’altra parte va fatta una riflessione di medio-lungo periodo: quali le capacità di difesa di cui abbiamo bisogno e come bilanciamo questa tensione tra la necessità di averle a disposizione subito, e quindi di acquisirle dall’esterno, e la capacità di costruirci un’autonomia strategica nel medio periodo e quindi lavorare per investimenti europei.

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