L’ economia dello spazio (Space economy) è una delle nuove frontiere del lo sviluppo economico globale. Come sono posizionate l’Italia e l’Europa? Ne parliamo con la professoressa Simonetta Di Pippo, astrofisica, già direttrice dell’Ufficio Onu per gli affari dello spazio extra-atmosferico (Unoosa), che dirige lo Space Economy Evolution Lab (SeeLab) dell’Università Sda Bocconi.
Professoressa Di Pippo, qual è il perimetro dell’“economia dello spazio” e come si è evoluto nel tempo?
La definizione di Space economy più accreditata oggi, adottata dalla stragrande maggioranza degli operatori di settore, è stata per la prima volta delineata dall’Ocse nel 2012. Per riassumere, potremmo dire che comprende la gamma delle attività che attraverso l’esplorazione, la ricerca, la comprensione e la gestione dello spazio, creano valore e benefici agli esseri umani, a tutti e ovunque. In altre parole, si tratta dell’insieme delle attività spaziali propriamente dette, che includono le aziende che producono il segmento spaziale (anche definito upstream), e l’indotto che deriva dall’utilizzo del dato e dell’infrastruttura spaziale, e che porta allo sviluppo di servizi e applicazioni tendenti a migliorare la vita di tutti i giorni (downstream).
Se marchiamo l’inizio dell’era astronautica al 4 ottobre 1957, quando l’allora Unione Sovietica lanciò il primo satellite costruito dagli esseri umani in orbita, è evidente che le tecnologie spaziali, dopo essere state sviluppate grazie ad ingenti contributi pubblici, diventano fruibili commercialmente, da cui poi si sviluppa il settore privato e la Space economy. Un’evoluzione naturale, che ammonta a circa 630 miliardi di dollari nel 2023, con una prospettiva di crescita sino a 1,8 trilioni di dollari entro il 2035.
L’Europa e l’Italia che posizione occupano in questo contesto? Che cosa si potrebbe fare di più?
L’Italia riveste un ruolo di primo piano sin dall’inizio, considerando che grazie alle intuizioni e alle azioni del professor Luigi Broglio, fummo nelle condizioni di mettere in orbita il primo satellite non americano e non sovietico, stabilendo un primato che risuona ancora oggi. Questo per dire che l’interesse e le competenze in Italia ci sono sempre state, e si sono andate via via rafforzando, consentendo al nostro Paese di essere sempre in prima linea nello scenario spaziale mondiale. Per esempio, l’Italia ha costruito circa il 50% del volume pressurizzato della Stazione Spaziale Internazionale, grosso programma di collaborazione internazionale che vede Europa, Giappone, Russia, Canada e Stati Uniti lavorare assieme da diversi decenni nella realizzazione e gestione di questo laboratorio in orbita a circa 400 km sopra le nostre teste. L’Europa ebbe l’intuizione di creare l’Agenzia spaziale europea (Esa) nel 1975 – ebbene sì, quest’anno si celebra il suo 50esimo anniversario – che ha dato un enorme contributo allo sviluppo delle attività spaziali dei suoi stati membri, che oggi ammontano a 23. L’Italia era uno dei Paesi fondatori. Successivamente, forse l’Esa non è stata veloce a sufficienza ad adattarsi ai cambiamenti che avvenivano sia in ambito industriale che geopolitico, e in questo momento ha bisogno di un rilancio. Attendiamo la riunione del Consiglio Esa a livello ministeriale previsto a Brema per il novembre del 2025 per capire gli orientamenti e se l’Europa riuscirà o meno a riconquistare a breve un buon posizionamento.
Si dice che in Italia operino nell’economia dello spazio circa 400 aziende: è una cifra attendibile? E quanto potrebbero crescere?
Presso il SeeLab di Sda Bocconi abbiamo sviluppato un database proprietario, il Seedata. I numeri che ci restituisce il Seedata, costruito con rigoroso approccio accademico e controllato minuziosamente nei metodi e nei risultati estratti, ci restituisce il seguente quadro della situazione dell’economia dello spazio in Italia: 390 aziende, con un fatturato al 2024 pari a 4,35 miliardi di euro e circa 14mila addetti, in netta crescita rispetto al 2023 e ancora di più rispetto al 2022.
Per chiarire la situazione, occorre specificare che abbiamo classificato le aziende in solo spazio, aziende che fanno spazio per una piccola parte delle loro attività, e aziende che non fanno spazio ma utilizzano i dati spaziali per svolgere le loro attività. Mentre nel primo caso, fatturato e numero di addetti sono calcolabili in modo preciso, per le categorie 2 e 3 abbiamo usato dei pesi ponderati e delle percentuali che utilizzano algoritmi proprietari per estrarre i dati. Ne viene fuori un quadro di estrema rilevanza.
Il sistema formativo è in grado di preparare sufficienti giovani professionisti dello spazio oppure c’è carenza di competenze?
La questione della formazione ha due componenti. Da un lato, c’è una carenza di competenze cross-settoriali, che invece sono indispensabili per lo sviluppo della Space economy. Dall’altro, la domanda di personale da parte dell’ecosistema nazionale è superiore alla disponibilità di personale stesso.
Da ultimo, in alcuni casi c’è bisogno di upskilling, ma non è facile trovare corsi di formazione dedicati. Presso la Sda Bocconi, con lo Space economy Evolution Lab (SeeLab), che ho l’onore di dirigere, facciamo proprio questo. Ci occupiamo delle evoluzioni e dei trend della Space economy conducendo ricerche allo stato dell’arte riuscendo così poi a iniettare le competenze acquisite nel sistema formativo. Un processo che è all’inizio ma che si prospetta foriero di buoni sviluppi.
Nell’economia dello spazio è cruciale la collaborazione pubblico-privato: sta funzionando nel nostro Paese e in Europa?
Con lo sviluppo di applicazioni commerciali, la questione della collaborazione pubblico-privato assume contorni e sfaccettature variegate. In altre parole, in funzione della necessità del programma che si vuole sviluppare, occorre anche definire chi sono gli attori deputati a svilupparlo e con impegno e associato ritorno. In Europa l’impostazione è da oleare, e i suoi meccanismi da sviluppare ulteriormente.
Forse è per questo che diversi tentativi, anche nel recente passato, non hanno dato i frutti sperati. Ma che ci debba essere sinergia tra strategia politica e contributo privato direi che rimane obbligatorio per uno sviluppo armonico.
Si sente dire che siamo in ritardo in alcuni settori, per esempio quello delle comunicazioni satellitari domi nato da Starlink di Musk e ora da Amazon di Bezos. È così? E che cosa possiamo fare per recuperare?
Qui si può argomentare poco, siamo in ritardo. C’è la costellazione europea Oneweb in fase di sviluppo, ma al momento le prestazioni migliori sono quelle di Starlink, che comunque ha già oltre 6mila satelliti in orbita e SpaceX non si arresta nei lanci a ripetizione, che dovrebbero portare a oltre 40mila satelliti in orbita. Una copertura capillare, anche e soprattutto in regioni remote o colpite da conflitto o calamità, dove la prima cosa che diviene inutilizzabile è proprio la comunicazione. Recuperare il terreno perso significherebbe investire in modo massiccio, per cercare di accorciare i tempi di sviluppo, ma non credo che ci sia in Europa una tale intenzione. C’è ma su presupposti e basi più limitate sia in termini di copertura che, interconnesso, di sforzo economico profuso.
Il risultato sarà ottimo, ma non ottimo a sufficienza per riempire il divario esistente. Anche perché, nel frattempo, Starlink e le altre costellazioni americane e no evolveranno, e il divario potrebbe essere destinato a persistere.
Che cosa suggerirebbe a un’impresa o a una startup che volessero cimentarsi nell’economia dello spazio?
Di ricordarsi che andare nello spazio, sembra facile, ma resta difficile. E che il prodotto che consente profitto richiede tempo per essere sviluppato e in questo lasso di tempo, lungo rispetto a quello a cui si è abituati in altri settori merceologici, si deve, come si dice in gergo, attraversare il deserto, il che significa prepararsi a difficoltà imprenditoriali. Ma certamente vale la pena!