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MULTILATERALISMO ED EUROBOND per la competitività europea | Civiltà del Lavoro 3/2025

08.08.2025

Alla prima tavola rotonda del Convegno dal titolo “L’Ue potenza economica globale fra innovazione e investimenti comuni” hanno partecipato Marco Buti, titolare della cattedra Tommaso Padoa Schioppa dell’Istituto Universitario Europeo; Veronica De Romanis, docente di Economia europea alla Luiss Guido Carli e alla Stanford University; Antonio Patuelli, presidente dell’Abi e Cavaliere del Lavoro; Ugo Salerno, presidente esecutivo di Rina e Cavaliere del Lavoro; Paola Subacchi, titolare della cattedra di Debito sovrano e finanza a Sciences Po.

BUTI: “Ricostruire il multilateralismo”
Per chi ha studiato statistica, l’Europa fa errori di tipo due e gli Stati Uniti fanno errori di tipo uno. Che cosa significa? Significa che gli Usa fanno, e lo vediamo in questi giorni, cose che non dovrebbero fare, mentre l’Europa non fa cose che dovrebbe fare. Significa che abbiamo davanti una prateria di opportunità in questo momento, ma difficilmente riusciamo a sfruttarle come potremmo. Se chiudiamo la porta e stiamo fino alla fine della mattina come faremo? Penso che troveremo alla fine un accordo generale su che cosa fare.
Le prime cose sono quelle da non fare. Ho vissuto a Bruxelles per oltre tre decenni, quindi so che in Europa tendiamo a costruire le nostre strategie sulla base di scenari favorevoli. Questa è una cosa che non si deve fare adesso. Magari Trump perde le elezioni di medio termine o magari tra quattro anni c’è un altro presidente più amichevole nei nostri confronti. Non sono questi gli scenari su cui basare la nostra strategia. La seconda cosa è non fare concessioni sulla sostanza sulla base di concessioni sulla procedura.
Tre dimensioni sulle cose da fare. La prima è la risposta a Trump. Su questo bisogna essere molto chiari. La presidente Ursula von der Leyen ha detto che negoziamo in buona fede, però bisogna essere pronti anche all’evenienza di un fallimento delle trattative.
La seconda dimensione è che nel nostro Dna abbiamo il multilateralismo, l’apertura. Siamo un continente che naturalmente conta su giochi a somma positiva, mentre Trump ha un’idea di giochi a somma zero.
Una cosa che ho imparato in questi anni è che giochi a somma zero non esistono. O si entra in una dinamica positiva in cui guadagniamo tutti da relazioni internazionali costruttive o entreremo in una spirale di giochi a somma negativa. Quindi dobbiamo ricostruire il multilateralismo dal basso. L’Europa ha cominciato a farlo: Mercosur, Svizzera, Messico, abbiamo adesso un calendario per l’India. L’85% del commercio è senza gli Stati Uniti, quindi, se gli Stati Uniti si tirano fuori, bisogna organizzare l’85% che resta e l’Europa è l’unica che può farlo. Ultimo scenario: dobbiamo renderci conto che abbiamo un business model europeo che non è sostenibile nel medio-lungo termine. Ci stiamo allontanando dalla frontiera tecnologica, abbiamo una crescita che dipende troppo dalla domanda esterna e non possiamo sottrarre domanda all’economia mondiale ogni anno attraverso surplus persistenti della nostra bilancia delle partite correnti. Cambiare il business model significa, in primo luogo, Europa della difesa. Non capisco le esitazioni che abbiamo a procedere chiaramente nella direzione indicata: mercato unico, Unione dei mercati e dei capitali, quindi risparmio e investimenti, Agenda Draghi e Letta. E poi il 16 luglio la Commissione presenterà le proposte per il nuovo bilancio pluriennale e questo sarà il momento della verità. Vogliamo restare con un bilancio dell’1% del Pil, che corrisponde sostanzialmente al bilancio della Danimarca, oppure guardiamo la realtà in faccia e diciamo che, in termini di flessibilità, taglia e composizione, il bilancio europeo attuale non è adeguato?

DE ROMANIS: “Gli Eurobond richiedono responsabilità”
Vorrei partire dal titolo, “L’Europa che vogliamo”. Comincerei a dire “L’Europa che raccontiamo”, anzi “L’Europa che ci raccontiamo” perché il vero problema è un racconto, a mio avviso, completamente sganciato dalla realtà. L’Europa è sempre colpevole. Quando succede qualcosa, è l’Europa che ci impone o è l’’Europa che ci chiede. Ma l’Europa non è un’entità astratta esogena, che scende dal cielo, ma è la somma delle scelte nostre e di chi noi abbiamo mandato in Europa. Quindi è fondamentale scegliere bene.
Siamo in una fase di grande complessità e noi, invece, facciamo un racconto molto semplicistico: l’Europa sì, ma non così, che non vuol dire nulla. Io invece sono ottimista: penso che l’Europa abbia fatto tantissimi passi avanti, il primo gennaio 2026, la Bulgaria entrerà nell’a rea dell’euro come 21° Stato. Ricordiamoci che solo 15 anni fa c’era chi scommetteva sul fallimento dell’euro. Adesso parliamo di eurobond per un motivo molto semplice, perché ci siamo resi conto che il debito nazionale è un problema. Noi italiani non possiamo, per esempio, aumentare il debito pubblico senza che questo abbia impatti negativi sui mercati finanziari. Quindi che facciamo? Cerchiamo risorse altrove.
Per darvi gli ultimi dati, il nostro debito passerà dal 135% del 2024 al 138% del Pil. Poi piano piano scenderà, ma siamo ancora in una fase di salita e questo ovviamente non va bene.
Ho l’impressione che il debito europeo sia diventato un nuovo modo per dire che pagano gli altri, paga l’Europa. Ma, attenzione, il debito europeo si somma ai debiti nazionali e questo spiega anche la cautela del nostro governo, soprattutto per quanto riguarda per le spese di riarmo. Che cosa è il debito europeo? È un debito che abbiamo già conosciuto con il NextGenerationEU, questo enorme piano pandemico che è stato messo a disposizione 15 giorni dopo lo scoppio del Covid. Anche qui, certo che non è facile mettere insieme 27 paesi, certo che non è facile mettere insieme una quantità enorme di debiti e di sussidi con paesi che possono spendere tranquillamente, non hanno bisogno dell’Europa, e paesi come il nostro che invece avevano e hanno ancora un enorme bisogno di risorse. Però ci siamo riusciti. Ecco perché io sono positiva, ci siamo riusciti, è uno strumento che sta lì, è temporaneo, ma si può replicare. Anche lo stesso Friedrich Merz ha detto: l’importante è che sia temporaneo ma siamo pronti a replicarlo.
Il debito europeo ci piace molto, però, non diciamo mai che per fare un debito europeo ci vuole un fisco europeo, cioè dobbiamo essere pronti a cedere un altro pezzettino di sovranità.
Il NextGenerationEU è il primo esperimento perché noi abbiamo preso i soldi, circa 200 miliardi, e ci abbiamo fatto più o meno quello che volevamo, ci abbiamo anche finanziato 15 miliardi di bonus 110%.
L’eurobond di cui si parla in questi giorni è qualcosa di diverso: lì non sono gli Stati che decidono cosa fare, ma è l’Europa, è un ministro dell’economia europeo che decide come finanziare, non più misure nazionali ma beni pubblici europei: la difesa, il welfare, cioè beni che servono a tutti gli Stati e non unicamente agli Stati-Nazione. Il racconto deve essere completo perché, se ci limitiamo a dire che pagano gli altri, non raccontiamo che poi gli altri sono anche quelli che decidono e noi dobbiamo contribuire. Allora fare gli eurobond vuol dire andare davvero verso un’unione di bilancio che, tra l’altro, sarebbe anche una grande risposta da dare all’America di Trump, al ruolo del dollaro. Sarebbe anche un modo per evitare che oltre 300 miliardi di risparmi lascino ogni anno l’Europa.
E qui ci sono varie ipotesi su chi potrebbe comprare i debiti nazionali. C’è chi pensa a istituzioni da creare, chi al Meccanismo europeo di stabilità, il famoso Mes, che è a mio avviso una delle istituzioni più utili che ci siamo inventati. Ed è un mistero perché noi soli non l’abbiamo ratificato dopo averlo negoziato molto bene. In futuro, per esempio, il Mes potrebbe essere trasformato in Istituto Monetario Europeo, un po’ come il Fondo Moneta rio Internazionale: un Fondo Monetario Europeo che in caso di crisi possa aiutare paesi membri.
Qui, l’Italia ha un doppio ruolo, sia nel ridurre l’enorme massa del nostro debito pubblico, ma anche e soprattutto capire che l’Europa è fatta non solo di solidarietà, ma anche di responsabilità e il Mes è un grande banco di prova.

PATUELLI: “Più regole per l’integrazione”
Quando si dice che l’Europa non c’è, bisogna porsi un interrogativo: c’è un trattato che autorizzi l’Ue a fare quello che viene richiesto in quel settore dove viene detto che l’Europa non c’è? Quasi sempre la competenza non c’è.
Quando si dice che l’Europa dovrebbe votare a maggio ranza togliendo il liberum vetum, il diritto di veto, bisognerebbe aggiungere che ci vuole un trattato costituzionale per decidere che si vota a maggioranza, quando e come. Allora il problema dell’Ue è che è un’unione solo economica, parziale, ed è un’unione economica perché non è stato possibile, dagli anni Cinquanta in poi, realizzare una maggiore Europa politico-istituzionale.
L’elezione diretta del Parlamento europeo dal ’79, la sua trasformazione progressiva da Parlamento consultivo a Parlamento co-deliberativo è già una crescita importante, da non sottovalutare, ma non è esaustiva.
La bocciatura della Ced, la Comunità europea di difesa, negli anni Cinquanta e la bocciatura del trattato per una Costituzione europea una quindicina d’anni fa, hanno bloccato la crescita politica e di conseguenza, quando si dice che nelle relazioni internazionali l’Europa non c’è, è perché l’Ue non ha competenze sulla materia di difesa e su grandissima parte delle materie di politica estera, ad impossibilia nemo tenetur. Quindi prima si fa il trattato e poi si fanno le cose: non c’è qualcuno che fa un colpo, non di Stato, ma di Ue prendendo la spada e brandendola per l’Europa.
Parlando di Unione economica dobbiamo dire che ci sono dei problemi e anche dei successi. Innanzitutto, il grande successo dell’euro. Il massimo degli interessi fissati dalla Bce in questa crisi che abbiamo quasi integralmente alle spalle, è stato il 4%. Quando c’è stata la crisi energetica del ’73, il tasso di sconto della lira italiana è arrivato al 19,5%. Oggi il costo del denaro in Europa è uno dei più bassi del mondo e, per essere precisi, in quest’ultimo anno la Bce ha fatto otto manovre di riduzione dei tassi e ora i tassi della Bce sono la metà di quelli americani e di quelli britannici, e di tanti Stati non euro. Significa che gli investimenti nell’area euro oggi costano meno di queste altre aree dell’Occidente.
Per andare avanti ci vogliono più regole comuni, ci vogliono dei codici di diritto bancario, finanziario, penale, dell’economia, codici che non costano, non implicano burocrazia e permettono l’integrazione.
Infine, sul Mes vorrei dire che non ha al proprio interno sufficienti garanzie di trasparenza, come per esempio la Bce che deve periodicamente riferire al Parlamento europeo. Allora sarebbe bene che anche gli organismi del Mes riferiscano al Parlamento europeo. È un’idea metodologica di natura istituzionale per sbloccare un organismo che ha decine e decine di miliardi paralizzati.

SALERNO: “Difendere di più la crescita delle imprese”
L’Europa è molto attenta alla difesa del consumatore rispetto al successo e alle dimensioni delle aziende. Non è un caso che nelle prime dieci aziende per capitalizzazione nel mondo, non c’è neanche un’azienda europea; sono nove americane e una è l’araba Saudi Aramco. Nel ’94 c’erano un paio di aziende europee e svizzere.
La crescita delle aziende è quindi frenata da come l’Europa, in generale, guarda alla difesa del consumatore, che viene prima della crescita.
Fukuyama ha sottolineato che il successo di una Nazione è direttamente proporzionale al tasso di fiducia. Le nostre regole e il nostro atteggiamento europeo dimostrano il contrario: si parte dall’idea che si deve impedire la scorrettezza, la malversazione, l’imbroglio e quindi normare, per quanto possibile e molto più di quanto necessario, l’attività economica.
Inoltre, le norme possono essere per obiettivi o prescritti ve. Le norme per obiettivi l’Ue le ha applicate per esempio nel mondo dello shipping stabilendo che entro una certa data le emissioni di CO2 devono arrivare a un certo livello, entro un’altra data, il 2050, lo shipping deve essere neutro. Quella sulle auto è invece una norma prescrittiva: dal 2035 le auto devono essere fatte soltanto in un certo modo. Questa norma è gravemente errata per tutta una serie di motivi. Intanto perché sta favorendo un’industria e sta danneggiando invece un sistema industriale, che è quello europeo, legato allo sviluppo del motore a combustione termica, dove noi siamo assolutamente campioni e in questo senso rischiamo di distruggere un’industria.
Ma ci sono altri due elementi: oggi ci sono 630mila colonnine di ricarica elettrica in Europa, mentre ce ne vorrebbero da 3 milioni e 300mila a 8 milioni. Siamo partiti dalla coda: facciamo le macchine elettriche poi, in qual che modo, le dovremo caricare, ma se la rete non c’è non le carichiamo. E c’è un errore ancora più grave: quanto inquinerà un’auto elettrica nel 2035? Quando cammina non inquina, ma è alimentata da energia elettrica e l’energia elettrica nel 2035 sarà ancora prodotta, per la maggior parte, da combustibili fossili.
Allora facciamo prima un’energia elettrica che sia al più basso contenuto di carbonio, facciamo la rete di ricarica e poi potremo introdurre l’auto elettrica.
L’Europa sull’energia, fino a poco tempo fa, non considerava la cattura della CO2 o il nucleare come tecnoloie che favoriscano la transizione ambientale perché, in quel momento era considerata solo la tecnologia delle rinnovabili.
Parlando poi di difesa, siamo guidati da un’ideologia che pensa ai carri armati, ai proiettili, a strumenti più di attacco che di difesa. Se riteniamo veramente di doverci difendere, possiamo cogliere da questo un’opportunità. Che sistemi di difesa dobbiamo utilizzare? Dobbiamo utilizzare droni, satelliti, software cybersecurity cioè dobbiamo investire in questo.
Ma queste cose qui, scusate, ci servono tutti i giorni e non soltanto per difenderci dalla Russia, ma per far crescere le nostre aziende.
Cerchiamo di capire che migliorare i sistemi di difesa vuol dire migliorare le nostre economie, la nostra competitività e la nostra capacità di lavoro.

SUBACCHI: “Favorire la do manda interna”
Un altro esempio virtuoso è l’Europa della cittadinanza europea e dei giovani che hanno beneficiato dell’iniziativa straordinaria, ormai trentennale, di Erasmus, che ha creato una mobilità di giovani che si muovono in Europa, studiano nelle università europee, lavorano in altre città europee e tutto questo grazie alla cittadinanza europea.
Il rapporto Draghi parla di competitività e della necessità dell’Europa di essere più competitiva, però sottolinea anche l’importanza di mantenere il modello sociale europeo e ci mette in guardia contro una discesa verso il basso, che minerebbe il modello europeo e che sarebbe una competitività in cui ci ritroviamo uno contro gli altri.
Dobbiamo in primo luogo alzare il tasso di produttività e dunque di crescita, da conciliare con la sostenibilità ambientale e sociale. In particolare, c’è una direttiva Ue del 2022 sui salari minimi adeguati. La produttività si deve quindi ottenere con lavori di qualità, con la formazione continua e con un’attenzione agli skills necessari all’impresa.
Qual è il problema dell’Europa? È il modello di crescita troppo legato alle esportazioni, poco alla domanda interna. Dobbiamo stimolare la domanda interna perché oggi la situazione geopolitica, i dazi, il fatto che stiamo allontanandoci da un modello di commercio estero non vincolato da dazi e barriere, ci impone di guardare al mercato interno.
Un modo di stimolare la domanda interna è assicurarsi che i salari reali siano adeguati. Questo è un problema che ha anche la Cina.
Tutto ciò impone una governance a livello europeo, quindi una politica economica europea più ampia. Ci sono però anche degli impegni che gli Stati nazionali possono prendere: per esempio ridurre le divergenze a livello di mercato del lavoro.
L’Italia è un fanalino di coda in termini di impiego femminile quindi noi ci perdiamo una fetta di lavoro importante che farebbe alzare la nostra produttività. Insieme all’Europa del Sud, siamo il Paese con la percentuale più bassa di donne nel mercato del lavoro formale, perché questo non significa che le donne non lavorino. Aumentare la presenza di donne nel mercato del lavoro, ridurre la disoccupazione giovanile, ridurre la disoccupazione strutturale, continuare le politiche di formazione, alcune di queste sono presenti nel Pnrr ma bisogna attuare queste politiche di continua formazione.
Negli Stati dell’Europa del Nord il 40% dei lavoratori sono in corsi di formazione permanente. Questo noi non l’abbiamo. Già ridurre questi gap sarebbe molto importante per aumentare la produttività e per ottenere quella prosperità sostenibile di cui parla anche l’Agenda 2024 2029 della Commissione.

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