Menu

EUROPA IN STALLO Occorrono nuove ambizioni | Civiltà del Lavoro 2/2025

04.07.2025

“Uniti abbiamo una strada, separati ci facciamo del male, punto e basta”. il Cavaliere del Lavoro Enrico Zobele non gira intorno al problema. L’Europa, così com’è, non va. È lenta, frammentata, in ritardo su quasi tutto: dalla difesa comune alla politica industriale, dalla diplomazia al mercato dell’innovazione. Eppure, resta l’unica opzione possibile per chi non vuole essere spettatore del nuovo (dis)ordine globale. Si è aperto lo scorso 3 aprile presso il Collegio Universitario dei Cavalieri del Lavoro “Lamaro Pozzani”, a Roma, il ciclo di incontri “L’Europa che vogliamo”, in vista del Convegno Nazionale della Federazione in programma a Venezia il 7 giugno. Una riflessione aperta, che ha messo a confronto, insieme a Zobele, Gianni Bonvicini, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), e Ferdinando Nelli Feroci, ex ambasciatore e già presidente dello stesso Istituto. Al centro del dibattito: l’inerzia delle istituzioni europee, le sfide di una politica estera senza strumenti e il confronto con un’America sempre più distante.

UN’INTEGRAZIONE MAI COMPIUTA
Zobele, presidente del Gruppo Triveneto dei Cavalieri del Lavoro, organizzatore del Convegno Nazionale, ha indicato con chiarezza le debolezze del Vecchio Continente. L’Europa ha ancora troppe carenze strutturali per riuscire a rispondere nei tempi dettati dall’attuale contesto tecnologico e geopolitico. La mancanza di un’unione finanziaria, l’assenza di una vera politica comune di difesa e la lentezza decisionale sono sintomi evidenti di un’integrazione mai compiuta. Ma ciò che preoccupa di più, ha detto, è il disallineamento tra ambizioni e risultati. Se da un lato si moltiplicano le regole – anche le più discutibili, come quelle sui tappi delle bottigliette – dall’altro si ignorano le necessità dell’impresa, che chiede politiche industriali chiare, investimenti in tecnologia e una transizione ecologica che non diventi un boomerang per la competitività europea. “Non possiamo farci del male da soli – ha detto – lasciando che altri, come la Cina, occupino gli spazi che noi lasciamo vuoti per eccesso di burocrazia o lentezze ideologiche”. Il Convegno di Venezia, ha aggiunto, dovrà essere un momento di confronto reale. “Siete il futuro – ha detto rivolgendosi agli allievi del Lamaro Pozzani – e abbiamo bisogno del futuro”.

“PERCHÉ L’EUROPA NON DECIDE?”
Gianni Bonvicini ha ricostruito il percorso dell’integrazione europea con l’occhio dell’analista che da decenni ne osserva le evoluzioni e le contraddizioni. “Perché l’Europa non decide?”, l’interrogativo che aleggia oggi intorno a ogni discorso sull’Europa è quello con cui lo studioso ha cominciato il suo intervento. “C’è urgenza di vedere un’Europa che riesca a uscire da quello che Nino Andreatta definiva un sistema istituzionale barocco. La premessa originaria di queste difficoltà è da individuare nella grande occasione persa nei primi anni ’50, quando ci fu l’opportunità di diventare una federazione.
Alla base del progetto europeo, ha ricordato Bonvicini, c’era un’ambizione forte: federare gli Stati europei. Il tentativo fu la Comunità europea di Difesa, nata nel 1952 e naufragata appena due anni dopo. Da quel fallimento si passò a un approccio più prudente, il cosiddetto metodo neofunzionalista: partire dall’integrazione economica per arrivare, gradualmente, a quella politica. In teoria, la cessione di sovranità in un settore avrebbe dovuto innescare, per effetto domino, l’integrazione in altri ambiti. È il cosiddetto spillover effect, su cui si fondava l’intero disegno europeo. Ma qualcosa non ha funzionato. “Abbiamo accumulato competenze senza costruire un centro decisionale efficace”, ha spiegato Bonvicini. “Ci siamo fermati al funzionale, senza mai fare il salto verso il federale”. Anche i trattati più recenti, da Maastricht a Lisbona, hanno migliorato l’architettura istituzionale, ma senza scardinare davvero i meccanismi che frenano l’Unione: la regola dell’unanimità, il potere di veto dei singoli Stati, la logica nazionale che continua a prevalere sulle scelte comuni. La domanda, allora, resta sempre la stessa: dopo tanto riflettere, tentare di aggiustare e aggiungere, perché l’Ue è ancora, come affermava Zobele, incompleta? “L’Unione europea – ha spiegato Bonvicini – si è affermata come una potenza civile, con una vocazione principale rivolta alla gestione dell’economia e al soft power. Questo approccio riveste un ruolo cruciale anche in ambito di sicurezza, poiché l’utilizzo di strumenti economici esterni può produrre risultati rilevanti in questo campo. Tuttavia, ciò è stato possibile grazie alla protezione garantita dalla Nato e dagli Stati Uniti. Oggi, però, ci troviamo in una posizione scomoda: da un lato, gli Stati Uniti arrivano persino a esprimere sentimenti ostili nei nostri confronti, affermazioni che colpiscono profondamente anche a livello politico; dall’altro, assistiamo a un’aggressione militare che, sebbene attualmente limitata all’Ucraina, mira chiaramente a dividere e indebolire l’Ue nella sua essenza”.
Per Bonvicini, la soluzione non è l’utopia dell’unanimità, ma la possibilità concreta che un gruppo ristretto di Paesi – disposti a fare un passo avanti – dia avvio a una nuova fase di integrazione. Non più un’Europa a 27 che si muove solo quando tutti sono d’accordo, ma un’Europa “a più velocità”, dove chi vuole procedere lo possa fare senza essere frenato dai più riluttanti. Ritorna cioè in auge il vecchio concetto del willing and able che si applicava alla Nato negli anni Ottanta per quelle che venivano definite operazioni fuori dall’area, cioè fuori dall’area di competenza della Nato.

USA E UE: VALORI (ANCORA) COMUNI?
Sulla stessa linea, ma con una lente più geopolitica, l’intervento di Ferdinando Nelli Feroci. L’ex ambasciatore ha messo in fila quattro dossier che oggi obbligano l’Europa a uscire dall’ambiguità: il commercio internazionale, la guerra in Ucraina, la difesa comune e il rapporto con gli Stati Uniti. Quattro punti che non lasciano margini a ulteriori rinvii.
La nuova amministrazione Trump ha già mostrato un approccio ostile al multilateralismo e al commercio libero. L’imposizione di dazi generalizzati sulle esportazioni europee è, secondo Nelli Feroci, un campanello d’allarme che Bruxelles non può ignorare. La risposta, tuttavia, non sarà semplice. Misure ritorsive rischiano di essere inefficaci, mentre altre opzioni – come la tassazione dei giganti del digitale – potrebbero avere effetti più concreti. “C’è l’opzione ‘bomba atomica’. Uno dei motivi per cui Trump ha imposto questi dazi – ha spiegato Nelli Feroci – è per ricavare risorse finanziarie da trasferire sul bilancio federale per consentire alleggerimenti dell’imposizione fiscale. Non so se sia una cosa fattibile ma quello che va tenuto presente è che buona parte del debito pubblico americano, che è enorme, è detenuto da istituzioni finanziarie e da risparmiatori in Paesi terzi. Cina e Giappone sono i maggiori detentori di titoli del debito pubblico americano, ma anche gli europei hanno quote molto importanti del debito pubblico americano. Pensa te cosa succederebbe se, a partire da domani, si cominciasse a svendere i titoli del debito pubblico americano, quali danni questo provocherebbe all’economia americana. Ve lo lascio come tema di riflessione”. In ogni caso, “l’Europa deve prepararsi ad agire con lucidità, senza farsi trascinare in una spirale di conflitti commerciali, ma senza accettare passivamente l’isolamento”.
Il secondo fronte è quello ucraino. Dopo l’invasione russa, l’Europa ha sostenuto Kiev in linea con Washington. Ma il ritorno di Trump cambia lo scenario. Il tentativo americano di negoziare direttamente con Putin, escludendo gli europei, mette l’Ue in una posizione marginale. “Ci troveremo a finanziare la ricostruzione senza aver partecipato alle decisioni. È un rischio concreto, anche perché la posta in gioco non è solo militare, ma politica”, ha sottolineato Nelli Feroci.
Anche sulla sicurezza l’Europa si muove in ritardo. Il programma “Rearm Europe”, presentato dalla Commissione, mira a rafforzare le capacità difensive degli Stati membri. Non si tratta di militarizzare l’Unione, ha precisato, ma di dotarsi di strumenti minimi per far fronte a un’eventuale aggressione o a un disimpegno americano. Droni, difesa antimissile, infrastrutture digitali, intelligence. È questo il terreno su cui costruire una parziale autonomia strategica.
Infine, c’è la questione più profonda, quella dei valori. L’Europa e gli Stati Uniti hanno condiviso per decenni un patrimonio comune di principi democratici: libertà di stampa, indipendenza della magistratura, tutela dei diritti civili. Ma oggi questa convergenza si sta incrinando. “Con Trump alla Casa Bianca – ha detto Nelli Feroci – non è più scontato che si resti dalla stessa parte su tutti i fronti. E questo mina anche la coesione dell’Occidente”. Il ciclo “L’Europa che vogliamo” nasce da qui: dalla consapevolezza che la crisi dell’Unione non è solo un problema di efficienza, ma di direzione. L’Europa può restare un esperimento incompiuto o diventare uno dei poli del mondo multipolare. Ma servono scelte. E serve farle presto.

 

 

Sfoglia l’articolo

Scarica la rivista completa

SCARICA L'APP