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Cultura, l’industria della bellezza. Un patrimonio per fare grande l’Italia

26.02.2018

di Giuseppe Roma

I BENI E LE ATTIVITÀ culturali costituiscono una risorsa straordinaria nella società contemporanea per le diverse funzioni cui oggi assolvono. Rappresentano un fattore decisivo non solo in termini educativi, ma anche economici e occupazionali. Inoltre, Il paradigma digitale e la comunicazione hanno ulteriormente ampliato i confini delle attività creative.

L’Italia, disponendo di una straordinaria stratificazione di culture e avendo sedimentato nel proprio territorio monumenti, come pure valori più impalpabili, incorporati nel paesaggio e negli stili di vita; vive da sempre la contraddizione di essere depositaria di un’enorme quantità di patrimonio culturale ma al tempo stesso di non aver adeguatamente sviluppato le competenze e le tecnicalità che ne consentono il suo miglior utilizzo.

Nonostante gli anni più recenti segnino una discontinuità nelle politiche di gestione dei beni culturali, grazie a una maggiore apertura alla managerialità, nel nostro Paese restano ancora molte remore per una piena fruizione del patrimonio storico, dei musei e dei siti archeologici. Ogni forma di incentivo per rendere popolare e diffondere l’interesse verso la cultura corre sempre il rischio di apparire come uno svilimento dei significati più profondi che quel patrimonio trasmette nel volgere delle diverse generazioni. E per tale ragione viviamo contestualmente una serie di distorsioni che giustamente la politica oggi cerca di raddrizzare:

  • la fruizione consapevole del patrimonio culturale, la frequentazione di musei, spettacoli teatrali o musicali, di biblioteche, ecc. in Italia coinvolge una quota più bassa della popolazione rispetto agli altri grandi paesi europei. Naturalmente si può obiettare che gran parte della popolazione abita in contesti ad alto valore culturale, ma una tale obiezione è oggi sempre me no valida poiché il 61% degli italiani vive quotidianamente la realtà di aree periferiche, molto lontane dai centri storici. E in ogni caso non è più sufficiente, al fine di accrescere la sensibilità sociale verso la cultura, la semplice fruizione “emotiva” quanto invece è indispensabile una vera e propria estesa azione, in grado di acculturare in modo approfondito la società italiana;
  • considerare le risorse culturali come uno stretto recinto per specialisti non consente, inoltre, di utilizzare tali risorse quale motore di una specifica economia – l’industria della bellezza e creatività – che pure oggi rappresenta una delle forme di più avanzata produzione nell’epoca delle tecnologie informative. È certamente importante mantenere nelle università, nelle scuole di alta formazione un elevato standing di ricerca e di studio ma in questo, come in altri campi, le conoscenze sono base per creare imprese e occupazione la cui natura, pur essendo riconducibile ai canoni della produzione imprenditoriale, costituisce un formidabile agente di diffusione e di valorizzazione della cultura specie nei Paesi più avanzati;
  • l’aver sacralizzato la cultura dell’antico rende, poi, più debole la stessa spinta a incentivare la creatività del contemporaneo nelle diverse arti, ovvero la capacità di ricercare nuove forme di produzione culturale dando spazio, in tal modo, anche al ricambio generazionale.

A conferma delle premesse, sono i dati che segnano la portata economica e occupazionale del settore cultura nel nostro Paese anche rispetto alle altre grandi realtà europee.

Definire il perimetro delle attività è il punto di partenza per qualsiasi stima, operazione che presenta una forte variabilità in relazione ai metodi utilizzati per effettuare tali stime. Se partiamo dai valori registrati attraverso le statistiche ufficiali Eurostat, le uniche confrontabili a livello europeo, si rileva come i due sottoinsiemi di riferimento siano costituiti da “arte, attività creative, musei e altre attività culturali” ed “editoria, video e musica”.

Il valore aggiunto riferito all’anno 2014 dei due settori vale in Italia 18,7 miliardi di euro, in Francia 37,9 miliardi di euro, in Germania 53,1 miliardi di euro, nel Regno Unito 56,6 miliardi di euro. Secondo tale fonte in Italia quindi si registra un valore inferiore agli altri tre grandi paesi europei e superiore solo alla Spagna che si ferma a 17,5 miliardi di euro (fig. 1).

Anche, l’incidenza sull’occupazione delle attività culturali nella comparazione internazionale vede l’Italia al quarto posto con un 2,7%, al di sotto della media europea e degli altri grandi paesi, mentre appariva  (all’epoca della rilevazione 2015) assai distante la quota del settore negli investimenti pubblici, un fattore negativo che è stato significativamente riequilibrato nel corso degli ultimi anni (fig. 2) culturale effettuate però esclusivamente con riferimento al nostro Paese. Nel 2013 il Masterplan della cultura predisposto dal Censis individua un più ampio perimetro relativo all’industria della creatività che comprende:

  • il patrimonio culturale in senso stretto comprendente la gestione di musei, biblioteche e monumenti, e le performing art;
  • l’industria culturale legata all’editoria, al cinema e alla musica;
  • il patrimonio creativo di tradizione comprendente l’artigianato artistico e l’eno-gastronomia;
  • il terziario della cultura cui afferiscono le attività di formazione, ricerca e comunicazione.

Un tale ampio insieme di attività ha prodotto (nell’anno in cui è stata effettuata la stima) un valore aggiunto di 89 miliardi di euro, occupando un milione 618mila addetti. Anche Unioncamere effettua una sua quantificazione sulla filiera della cultura e, per il 2013, tale stima raggiungeva il valore di 214 miliardi di euro, pari al 15% del Pil. In questo caso vengono ricomprese anche le attività a monte e a valle, prima fra tutte quella turistica. Per una tale fonte, a fronte degli 80 miliardi di valore aggiunto prodotto dal sistema culturale, se ne attivano ulteriori 134 in altri comparti economici con un moltiplicatore pari a 1,67. Come emerge dalla sintetica rassegna effettuata, il valore economico nelle attività culturali varia in maniera rilevante a seconda del significato che a tali risorse si vuole annettere. È ben evidente che esiste un appeal turistico del nostro Paese, fortemente connotato dall’attrattività del patrimonio artistico, tuttavia non si può attribuire a questo fattore l’intera motivazione dei flussi turistici. Altrettanto vale per la filiera dell’agroalimentare o per l’artigianato.

Sembra pertanto più utile, per le finalità del presente paper, circoscrivere l’analisi al campo più strettamente connesso alla gestione dei beni culturali e all’industria della creatività. Se ad esempio analizziamo il nucleo più rilevante costituito dai musei e siti statali, otteniamo una misura realistica del fatturato prodotto il cui valore, pur essendo in crescita negli ultimi anni, non supera il fatturato di una media impresa manifatturiera italiana o di un grande museo straniero.

Gli incassi da bigliettazione passano infatti da 104 milioni di euro del 2008 ai 136 milioni di euro del 2014, ai 155 milioni di euro del 2015 e ai 172 milioni di e del 2016 (fig. 3). Un valore riferito all’intero sistema dei 431 istituti afferenti al Mibact.

Bisogna tener comunque conto che i campioni europei di incassi come i Musei Vaticani a Roma o il Louvre sono istituzioni che incassano da soli cifre molto importanti, integrando gli introiti da bigliettazione con altre fonti. Musei Vaticani e Louvre messi insieme superano l’intero fatturato del sistema italiano (fig. 4). Se esaminiamo l’afflusso di visitatori negli istituti statali vediamo come una maggiore attenzione ai problemi della gestione culturale e una diversa politica tariffaria sta portando a una crescita di visitatori, anche di visitatori paganti. Nel 2010 i visitatori degli istituti statali sono risultati pari a 37,3 milioni, di cui 15,5 paganti. Nel 2012 i visitatori complessivi erano risultati 37,2 milioni e quelli paganti 16,8 milioni. La gestione Franceschini ha portato nel 2015 a registrare 20,7 milioni di visitatori paganti su un complesso di 43,3 milioni. Quindi circa 6 milioni in più di visitatori, di cui 4 paganti. Nel corso del 2016 si è avuto un ulteriore balzo in avanti con 44,4 milioni di visitatori totali (paganti e non paganti). Un risultato di 1,1 milione di visitatori in più pari al 2,5% cui hanno certamente contribuito anche le domeniche gratis cui hanno partecipato nel 2016 3,1 milioni di visitatori. Proprio basandosi sui dati relativi agli ingressi totali, è evidente come esista in Italia un enorme potenziale inespresso in quanto i punti più noti di accumulazione del patrimonio culturali fanno da “idrovora” rispetto al restante territorio.

Tre Regioni hanno assorbito, nel 2016, ben in 76,8% dei visitatori: Lazio con il 44,2% del totale, Campania con il 18,2% e Toscana con il 14,4% (fig. 5).

Il traino evidente è dato dai siti più popolari come il Pantheon (nel 2016 al top con 7,6 milioni di visitatori tutti non paganti essendo a ingresso gratuito) o il Colosseo e i Fori a Roma, gli scavi di Pompei e gli Uffizi e la Galleria dell’Accademia a Firenze. I primi sette siti per flusso di visita totalizzano il 51,3% delle presenze totali (fig. 6). Seppur con riferimento al 2015, è possibile depurare i flussi di visita dagli ingressi gratuiti per l’insieme dei siti delle quattro grandi città d’arte italiane. Roma assorbe il 36% dei visitatori, Firenze ulteriore 20%, Napoli ulteriore 16% per un totale del 72% di visitatori paganti, 15 milioni sui 21 milioni totali. Se poi aggiungiamo i grandi flussi verso la città museo di Venezia, non possiamo che riconoscere un rilevante divario fra il potenziale di offerta esistente sul territorio continuano a concentrarsi in pochissimi poli.

La massificazione della cultura produce certamente rilevanti problemi organizzativi, con il rischio di un oggettivo abbassamento dei livelli di fruizione. L’idea romantica di un museo dove effettuare visite silenziose e solitarie è decisamente contraddetta da grandi spazi espositivi che, nella gestione dei flussi, hanno necessità di conformarsi a strutture in grado di coniugare funzionalità e bellezza.

Paesi che per tradizione hanno concentrato in pochi luoghi il loro patrimonio culturale, avendo una struttura insediativa polarizzata nella capitale o in poche città (vedi Francia, Regno Unito), non hanno rilevanti alternative al gigantismo di pochi poli culturali, che non può essere confrontato con il policentrismo italiano. L’Italia è un modello tutto affatto differente, sia per struttura urbana a rete che per diffusione di attrattori culturali. Non può valere per il nostro Paese il modello della “cultura in poche grandi città” poiché possediamo un ampio sistema di medie città – antiche capitali di ducati o principati – in grado di attrarre potenzialmente significativi flussi di fruitori del patrimonio storico-artistico. Purtroppo questa diffusione sul territorio avviene oggi in modo spontaneistico e non riesce a riequilibrare lo squilibrio esistente in termini di flussi, specie se ci riferiamo alle istituzioni museali e monumentali dello Stato.

 

ITALIA MUSEO DIFFUSO

Una crescente attenzione al nostro patrimonio culturale diffuso è la vera novità che emerge nei provvedimenti e nelle politiche più recentemente adottate dal Mibact. Si è iniziato proclamando il 2016 come “Anno dei Cammini”, quindi alla voglia di protagonismo delle medie città si è dato lo sbocco delle “Capitali italiane della cultura” (Mantova per il 2016 e Palermo per il 2017) e infine si è proclamato il 2017 come “Anno dei Borghi”. Politiche quindi che incentivano la valorizzazione di tutto il territorio nazionale rispondono meglio alla qualità che assume nel nostro Paese l’arte e la cultura.

La ricchezza del nostro territorio deriva innanzitutto dalla storia italica che affonda le sue radici in una pluralità di insediamenti dal periodo preromano e che oggi costituiscono il più importante giacimento archeologico europeo. Il “museo diffuso” deriva, poi, dalla centralità di due grandi istituzioni storiche aventi come sede il nostro territorio quale la Civiltà Romana e la Cristianità, e poi il policentrismo urbano sviluppatosi con la nascita di centinaia di borghi fortificati in epoca medievale. Non possiamo non rilevare, infine, il ruolo ricoperto dai tanti stati e principati dell’epoca preunitaria che rendono l’Italia il territorio a maggiore densità di piccole capitali, di città ideali e di ville storiche.

Per un tale retaggio storico si contano in Italia su poco più di 8mila comuni quasi 7.800 centri storici (di cui 900 principali) e circa 15mila nuclei abitati storici (borghi, villaggi, e piccole borgate autonome). Piccoli comuni e borghi rappresentano un modello di vita comunitaria tipicamente italiano, sedimento di stili di vita, di tradizioni identitarie, alimentari, di storia, cultura e paesaggio. Questo grande museo diffuso del Paese, specie quello localizzato in collina, montagna e nelle aree meno accessibili, è oggi a rischio d’abbandono e quindi di degrado e distruzione.

Se guardiamo, ad esempio, ai numerosi piccoli comuni situati nel cratere del terremoto abruzzese, o diverse frazioni distrutte dal più recente sisma dell’Italia Centrale, l’esser venuto meno il presidio di una comunità – se pur minima – aveva disastrato i centri già prima della calamità. Uno specifico programma d’iniziative per la valorizzazione dei borghi deve necessariamente migliorare le condizioni insediative per i residenti permanenti e temporanei, in modo da stabilizzare e attrarre il capitale umano indispensabile per ogni processo di recupero e rilancio. Ai fini di una nuova progettualità, può essere utile individuare le diverse tipologie di borghi sintetizzabili, in una generica ripartizione, in:

  • borghi affermati che sono conosciuti per la qualità del patrimonio culturale, le produzioni artigianali e le specialità gastronomiche, il paesaggio o le risorse naturali. La molteplicità di un’offerta di qualità consente l’ampliamento dell’organizzazione produttiva e turistica, soprattutto nella promozione internazionale;
  • borghi a elevato potenziale ma con scarsa capacità d’offerta turistica e bassa notorietà. Qui vale di più un sostegno alle attività esistenti o l’incentivo a insediare nuove attività con buona prospettiva di successo;
  • borghi in spopolamento con priorità di ricostituire una comunità, persone oltre che restauri. Se non si rende possibile la trasformazione del patrimonio attraendo nuovi utenti e stabilizzando almeno un presidio, si rischia l’abbandono totale.

Naturalmente, la realtà e le situazioni sono certamente più complesse, a tal fine andrebbe opportunamente specificata la strategia, basandosi sulle diverse tipologie esistenti nei diversi territori. Alcune reti e associazioni hanno in questi anni certificato l’esistenza di un tale patrimonio culturale diffuso, basti pensare alle 215 “Bandiere Arancioni” del Touring Club Italiano, alle 87 Cittaslow e ai 258 “Borghi più belli d’Italia”, associazione nata in ambito Anci. La stessa offerta museale che pure presenta numerosissimi poli di eccellenza è costituita da un’estesa rete di istituzioni statali e non. A fronte infatti dei 424 siti statali (musei, monumenti e aree archeologiche), di cui si è detto in precedenza, ritroviamo ben 4.340 istituti aperti al pubblico appartenenti a enti locali, ecclesiastici o soggetti privati. In confronto con i grandi musei a impatto internazionale, la cosiddetta rete minore può sembrare difficilmente comparabile, tuttavia la presenza nel territorio di edifici storici che ospitano anche piccole, ma significative, raccolte di opere, costituisce un dato di grande interesse e di potenziale attrattività. Un’ulteriore specificità italiana è rappresentata dall’impronta che, a partire dal dopoguerra, si è voluta affermare nelle politiche di salvaguardia e valorizzazione. L’attenzione si è infatti rapidamente spostata dal preservare il singolo bene al conservare il più possibile la morfologia del tessuto e del paesaggio direttamente collegato al bene monumentale.

Da qui il valore riconosciuto all’intera struttura dei centri storici e non soltanto alle emergenze artistiche o architettoniche, l’interazione con l’ambiente naturale, la conservazione delle tradizioni e delle culture locali. Il Codice dei beni culturali ha ben definito, nel 2004, il concetto stesso di paesaggio quale “parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrogazioni”. La grande densità di beni disseminati praticamente sull’intero territorio nazionale, nonostante un’azione molto intensa di tutela ma con risorse insufficienti, non ha annullato la vulnerabilità dei beni culturali italiani. Se aggiungiamo a tali fattori anche il rischio sismico e idrogeologico, che interessa territori fragili come l’Appennino, ricchi di testimonianze culturali ma con gravi problemi di spopolamento, troveremo un ulteriore elemento a sostegno dell’indispensabile impegno, per il nostro Paese, nell’intervento culturale.

Una conferma al quadro fin qui tracciato viene dall’Unesco che, dopo aver riconosciuto in Italia quale patrimonio dell’umanità i siti più importanti e conosciuti, non ha trascurato anche emergenze storico-artistiche collocate in circuiti secondari. Pensiamo alle “Necropoli” o resti di Pantalica in Sicilia, il “Villaggio Nuragico di Barumini” in Sardegna, il “Centro Operaio” di Crespi d’Adda, l’arte rupestre della Val Camonica, ma anche le Langhe, la Val d’Orcia o la Val di Noto. Con 51 siti siamo ancora i primi al mondo, ma la Cina ci tallona ormai da vicino con 50 e con la prospettiva di crescere ancora data la dimensione del suo territorio.

LE PRINCIPALI CRITICITÀ

L’aver messo mano a questioni da tempo lasciate in sospeso ha reso, negli ultimi anni, il clima del settore dei beni culturali più vivace e fiducioso, anche grazie all’azione governativa. Restano tuttavia alcune  questioni di fondo su cui esercitare uno sforzo ulteriore di progettualità e operatività. Intanto le grandi dimensioni del patrimonio e gli elevati fabbisogni di intervento implicano la necessità di risorse finanziarie e organizzative molto superiore a quelle che attualmente sono rese disponibili dai bilanci pubblici e dagli investimenti privati. Come in altri settori di diretta competenza statale o locale, la disponibilità di risorse deve tener conto dei vincoli della spesa pubblica. E, quindi, proprio perché al patrimonio culturale viene   riconosciuta una capacità di generale sviluppo e occupazione, l’impulso a far affluire più risorse verso il settore non può che confrontarsi con la necessità di un ruolo più incisivo dei soggetti privati, delle fondazioni e del mecenatismo.

Per quanti sforzi possano esser fatti in ambito pubblicistico, un vero riequilibrio fra fabbisogno di interventi e risorse implica il pieno coinvolgimento dei privati. Alcune scelte importanti sono state compiute in materia di defiscalizzazione degli investimenti attraverso il cosiddetto Art Bonus. Tuttavia è necessario abbattere le barriere e le incomprensioni che dividono ancora il pubblico dal privato e viceversa. È evidente che le scelte imprenditoriali implicano il riconoscimento di logiche – non necessariamente incompatibili con una visione sociale della cultura – ma che devono aumentare i gradi di autonomia di chi investe risorse proprie. E d’altro canto il valore e la fragilità dei beni su cui intervenire implica anche da parte del privato, una competenza culturale, un rispetto e una passione autentica che deve far premio rispetto a logiche di rozza commercializzazione.

Quindi, non si tratta solo di ricercare nuove formule di collaborazione ma della necessità di ricostruire una visione innovativa nella consapevolezza che questo settore sia davvero strategico per l’avvenire del Paese.

Bisogna riconoscere che è un tema molto delicato, da affrontare con grande sapienza, tenuto anche conto come i meccanismi amministrativi e burocratici, nel più generale quadro della governance di sistema del nostro Paese, non sempre aiutano a trovare le soluzioni migliori. Ad esempio la rigidità di certe regole non ha finora permesso una graduazione della tutela in modo da preservare in modo assoluto i beni a qualità storico-artistica “irripetibile”, lasciando più flessibilità su un patrimonio degradato e in abbandono per ragioni strutturali (spopolamento, localizzazione, ecc.) che potrebbe tornare a essere rivitalizzato anche grazie a una trasformazione degli usi.

In particolare, per quell’Italia borghigiana di collina o di montagna che rischia continuamente di collassare in quanto collocata in aree marginali, rigenerazione e rilancio difficilmente possono realizzarsi senza precise strategie di intervento imprenditoriale. Una seconda area di attenzione e di criticità attiene al tema della fruizione quale strategia complementare alla strumentazione educativa finalizzata ad accrescere il senso civico e la diffusione della conoscenza. Anche in questo settore provvedimenti come l’incentivo alla visita di musei e siti archeologici attraverso la gratuità ha dimostrato un buon livello di efficacia. Tuttavia se consideriamo strettamente i numeri, l’incremento di visitatori fra il 2016 e il 2015 è risultato  significativamente più basso di quanti hanno usufruito delle “domeniche gratis”. D’altro canto nel considerare i flussi di visita va registrato l’effetto distorcente della sovrapposizione fra turismo di massa, rivolto prevalentemente al patrimonio più noto, e flussi ordinari di visita da parte dei cittadini. L’enorme squilibrio tuttora esistente indica una prevalenza del turismo, soprattutto da parte degli stranieri. Su questo preciso punto è da sottolineare gli sforzi necessari ad accrescere la funzione sociale della cultura che non può ridursi, in un paese come l’Italia, alla spontanea osmosi fra tradizione storica e vita quotidiana dei cittadini.

In altri termini, vivere immersi in un contesto ad alto valore culturale non è sufficiente all’innalzamento della consapevolezza sociale e inoltre determina forti disuguaglianze. Per chi vive in città medie o in località storiche è comunque necessaria una maggiore conoscenza del valore culturale del territorio di residenza. Ma ormai gran parte della popolazione italiana vive al di fuori di contesti ad elevata densità culturale, nelle periferie delle grandi metropoli o nei centri di nuova edificazione degli hinterland metropolitani. Pertanto va rapportato in maniera nuova sia la gestione dei flussi turistici che la promozione della cultura presso le comunità territoriali. Corollario di una tale generale problematica è la necessità di accelerare rispetto ad aree di intervento in sofferenza. Innanzitutto lo squilibrio esistente nel Mezzogiorno fra valorizzazione della cultura e presenza di una ricchissima offerta culturale, rafforzata anche da recenti iniziative come ad esempio il rilancio di Pompei, i Musei Archeologici Nazionali di Taranto e di Reggio Calabria o il successo di centri come Lecce, Matera o Siracusa. Una maggiore fruizione del patrimonio culturale potrebbe influenzare nel Sud – specie nelle aree socialmente più critiche – la crescita del civismo e dello spirito di comunità. Inoltre avrebbe un effetto positivo del punto di vista turistico, contribuendo allo sviluppo e all’occupazione nelle regioni meridionali. Nel Mezzogiorno si combinano alcuni effetti negativi:

  • innanzitutto a frenare la fruizione è anche la carenza delle reti infrastrutturali e di servizio che rendono più difficoltosa l’accessibilità ai beni;
  • lo scarso utilizzo, talvolta anche distorto, delle pur ingenti risorse aggiuntive disponibili nel Sud grazie ai

programmi europei;

  • la presenza di esperienze di eccellenza che restano isolate in un tessuto socio-economico che non ha piena consapevolezza di quanto possa rivelarsi strategica la valorizzazione culturale.

Un altro terreno cui prestare maggiore attenzione è il supporto alla creatività del contemporaneo. Fenomeni come musei e eventi riguardanti l’area contemporanea, la street art o la nuova architettura trovano certamente in Italia esperienze di eccellenza, basate più sulla vitalità spontanea che non su strategie strutturali. È chiaro che l’industria della bellezza va alimentata con quella della creatività e che oggi i principali poli di tendenza si vanno spostando dall’Atlantico al Pacifico. Tuttavia nel Paese che può annoverare la più antica e importante sede di confronto sulla contemporaneità, come è la Biennale di Venezia, dovrebbe impegnare più energie per rimanere nei circuiti di formazione e diffusione della cultura contemporanea nelle arti visive, nella letteratura, nelle performing art e nella musica. Solo un ruolo rilevante nel contemporaneo può garantire al nostro Paese il mantenimento di una leadership culturale che deriva dalla sua storia.

PRODURRE CULTURA, OLTRE L’ARTE

L’aver accumulato un ingente patrimonio culturale ed essere forse il Paese più ricco di bellezza, non esime l’Italia nell’impegno a produrre cultura contemporanea soprattutto nei campi che oggi attirano l’attenzione del grande pubblico, come la musica, lo spettacolo dal vivo e soprattutto il cinema. In particolare musica e film rappresentano un linguaggio di carattere universale, ad elevata capacità comunicativa, uno strumento in grado di esercitare una rilevante funzione di orientamento sociale, ma al tempo stesso fenomeni di moda non esenti da ambigui significati, non sempre congruenti con le più alte finalità culturali.

Da un punto strettamente economico gli incassi al botteghino si sono notevolmente incrementati negli ultimi anni, con un aumento di oltre il 20% fra 2014 e 2016. Il fatturato (fig. 7) vede per oltre la metà dei tre comparti i ricavi provenienti dal cinema (54%), seguito dal teatro (26%) e dalla musica (20%). Le tendenze recenti, tuttavia, fanno emergere un quadro tendenziale molto diversificato.

Le attività teatrali registrano una sostanziale stabilità di spettatori per effetto soprattutto di un leggero incremento della lirica che compensa la riduzione nelle frequenze delle “riviste e commedie musicali”. Complessivamente nel 2015 gli spettatori sono stati 22 milioni, praticamente un valore identico a quello del 2012: la lirica ha registrato una crescita del 13%, mentre la rivista un decremento del 19% (sempre rispetto al 2012). Significativa la crescita delle attività concertistiche passate da 10,8 milioni di spettatori a 13,3 milioni (+ 24%) con un significativo balzo in avanti della musica leggera di +37,1%. Le attività concertistiche hanno visto aumentare anche il numero medio di spettatori, dato che segnala un aumento del 15%.

Quanto ai risultati economici, le attività teatrali presentano un valore degli incassi pari a 362 milioni di euro rispetto ai 344 milioni di euro delle attività concertistiche, che pure hanno registrato un numero di spettatori molto inferiore rispetto a quello del teatro. Inoltre, nell’ultimo triennio il teatro ha registrato una sostanziale stabilità di fatturato, mentre la musica ha visto cresce gli incassi da 235 milioni di euro a 344 milioni (fig. 8). Per quanto attiene la fruizione degli spettacoli cinematografici stiamo assistendo negli ultimi anni a un vero revival del cinema non scalfito dalla pur rilevamente concorrenza delle diverse forme attraverso cui è ormai possibile veder un film come televisione, computer, siti web, tablet etc.

Con la crisi gli spettatori si erano ridotti del 12% nel 2014 rispetto al 2011, ma nel 2016 non solo è stato riconquistato il terreno perduto, ma abbiamo assistito a un incremento rispetto al 2011 del 2% nei ricavi e del 6% negli ingressi, segno di una rilevante vitalità di questa particolare offerta culturale. Teniamo anche conto dei successi internazionali di alcune pellicole italiane di particolare valore sociale e culturale, e un ritrovato interesse anche dei giovani verso questa forma artistica. L’industria cinematografica italiana non ha più quella rilevanza mondiale che aveva acquisito negli anni ’60 con la forte capacità produttiva di Cinecittà, tanto che con 167 film prodotti si colloca all’ottavo posto nel mondo (fig. 9).

L’industria audiovisiva ha assunto in Italia altre forme di specializzazione, come ad esempio la fiction televisiva. Resta comunque un’area del contemporaneo su cui investire più risorse intellettuali, creative e finanziarie.

LA LETTURA E IL RISCHIO DELL’ANALFABETISMO DI RITORNO

Negli ultimi 15 anni il numero di lettori di libri è rimasto pressoché costante il 41% nel 2001, il 42% nel 2015. Si tratta di lettori minimi, con almeno un libro letto in un anno. Fra il 2009 e il 2013 la quota di lettori era salita fino al 47% per poi tornare a diminuire negli anni più recenti. Bisogna considerare la quota di lettori degli altri paesi europei che raggiunge l’86% in Belgio, il 69% in Francia e Germania e il 62% in Spagna. La situazione della lettura rappresenta un vero e proprio handicap per il Paese in quanto non riguarda solo le persone con un basso livello di istruzione o con una collocazione sociale medio-bassa ma anche la classe dirigente. Nel 2015 infatti il 38,6% di “dirigenti, imprenditori e  liberi professionisti” dichiara di non aver letto alcun libro. Valore che sale al 44,6% degli uomini e scende al 25% per le donne. Persino tra i laureati, bel il 25% non ha letto alcun libro nel corso dell’anno.

Inoltre i cosiddetti lettori forti (chi legge più di dodici libri l’anno) rappresentano in Italia un quota  dell’11,6%. L’industria editoriale costituisce, in tutti i paesi avanzati, una componente significativa dell’economia. Anche in Italia il fatturato derivante dalla vendita di libri ha raggiunto nel 2015 il valore di 2,5 miliardi di euro, in leggera crescita sull’anno precedente ma molto al di sotto del 2011, quando si raggiunse la cifra di 3,1 miliardi. La produzione di titoli resta sostenuta e in costante crescita a partire dal 2014. Ai libri di carta vanno poi aggiunti gli e-book che nel 2015, con 62.544 titoli, cresce del 21% rispetto all’anno precedente. Tuttavia la quota di mercato resta relativamente marginale, pari al 4,2%. Se però ai libri digitali si aggiungono altre forme di commercializzazione in rete, la quota sale all’11% del mercato. Si può, quindi, concludere che anche in Italia le nuove tecnologie stanno influenzando il mondo dell’editoria ma che, nonostante la più facile accessibilità ai libri, la lettura resta un’attività socialmente poco diffusa. Riecheggiano pertanto sempre più attuali gli appelli di Tullio De Mauro alla continua manutenzione delle competenze linguistiche in funzione non solo culturale, ma anche di consapevolezza civile. Una popolazione che rinunci alle competenze di base finisce per non essere in grado di valutare appieno gli eventi della vita quotidiana e i grandi fenomeni collettivi. Un ruolo decisivo per incentivare l’accesso alla lettura e alla cultura deriva in tutte le società avanzate dal sistema di istruzione scolastico e universitario. Sulla scuola sono state probabilmente scaricate troppe responsabilità, depotenziando la funzione essenziale di fornire strumenti basilari di conoscenza e di competenza, ciò è dimostrato anche dall’esodo di molti giovani verso l’estero e dalla minore attrattività delle nostre università rispetto a quelle straniere.

Con il programma Erasmus dell’Unione Europea 26.300 studenti italiani hanno fatto un’esperienza all’estero e 20.000 studenti stranieri l’hanno fatta in Italia. In Spagna gli studenti uscenti sono stati 37mila, quelli entranti 39mila, in Germania 36mila uscenti e 31mila entranti, in Francia 37mila uscenti e 30mila entranti, nel Regno Unito 16mila uscenti, 27mila entranti. Tecnologia e internazionalizzazione aiutano certamente ad avvicinare il mondo giovanile alla cultura ma non ottengono gli effetti voluti, se non sono accompagnati da una solida formazione di base.

L’IMPEGNO DELL’IMPRESA PER LA CULTURA

Il fondamentale ruolo che la cultura svolge nella realtà italiana è sottolineato dalla particolare attenzione che il mondo delle imprese rivolge alla promozione di eventi, strutture e investimenti volti ad accrescere il livello culturale del Paese. Negli anni più recenti, anche grazie al consolidamento di un capitalismo familiare tipico della struttura produttiva italiana, molte aziende hanno creato fondazioni o musei, arricchendo il territorio ove operano con nuove opportunità nel campo dell’arte, della tutela del paesaggio, del restauro di monumenti, ecc. In un tale ambito particolare importanza riveste l’impegno della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro che con il “Progetto Cultura” sta dando un rilevante contributo sulle tematiche della tutela e valorizzazione del patrimonio del nostro Paese. A tale fine, oltre alle diverse iniziative istituzionali, ha dato corso a un Protocollo d’intesa con il Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo teso a:

  • ridefinire i modelli di governance e le politiche fiscali al fine di favorire gli investimenti e l‘afflusso di risorse private nella valorizzazione del patrimonio artistico e culturale;
  • sperimentare sistemi innovativi per catalizzare investimenti italiani e stranieri nel settore culturale con un’intensa collaborazione fra pubblico e privato;
  • concordare con il Mibact tutte le iniziative di tipo legislativo, fiscale, regolamentare e amministrativo in grado di realizzare una fattiva collaborazione fra soggetti privati e istituzioni per il preminente interesse generale.

L’industria della bellezza è la più qualificante sfida per la società italiana essendo la cultura in tutte le sue forme, materiali e immateriali, riconosciuta in tutto il mondo quale risorsa di eccellenza che caratterizza il nostro Paese. Si è intrapresa una strada di rinnovamento sia nella gestione che negli obiettivi da conseguire. Importante è che questo percorso venga ulteriormente rafforzato, rimuovendo gli steccanti che in passato hanno impedito il dispiegarsi di politiche rivolte a una più diffusa fruizione della cultura da parte dei cittadini e un intenso utilizzo della bellezza come carburante per la crescita economica ed occupazionale

 

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