Confindustria Moda è una delle più importanti organizzazioni internazionali di rappresentanza degli industriali attivi nel tessile e nella moda, un settore che in Italia occupa quasi 400mila addetti e comprende poco meno di 50mila aziende.
È l’interlocutore più appropriato per un ragionamento a 360 gradi su che cosa sta cambiando non solo in termini di presenza del made in Italy all’estero, ma anche sulle sfide in corso per una produzione sempre più sostenibile e un pubblico ormai molto attento alle istanze sociali e green. Di questo e altro abbiamo parlato con il presidente Luca Sburlati.
Presidente Sburlati, moda e lusso sono due punte di diamante dell’industria italiana. In che misura si sono dimostrate sensibili, in questa prima parte del 2025, alle spregiudicate politiche commerciali della seconda amministrazione Trump?
Siamo certamente in un momento complesso dal punto di vista degli scenari geopolitici e il nostro settore ne avverte gli effetti. Le scelte commerciali di Trump — tra dazi mirati, misure protezionistiche e forti pressioni sulla politica valutaria — stanno creando soprattutto incertezza e confusione sui mercati internazionali.
Questo ha un impatto diretto sulla “psicologia di acquisto”, ovvero “mi sento incerto sul mio reddito e dunque risparmio”, un atteggiamento legittimo e umano. Il clima di imprevedibilità è dunque l’elemento più complesso da affrontare.
Il secondo tema sarà poi quello dei dazi differenziati e cioè la potenziale perdita di competitività dei prodotti italiani nel confronto con altri paesi del Mediterraneo, inclusa la Turchia, che abbiano dazi azzerati o più bassi. Se associamo ciò a un minore costo dell’energia per le imprese estere, il gap diventa molto rischioso.
Quali sono i nuovi mercati che potrebbero – se non sostituire – almeno mitigare eventuali contrazioni legate al mercato statunitense?
Gli Stati Uniti restano un partner prioritario, è difficile pensare di “sostituirlo”. Tuttavia, Confindustria Moda non ha mai smesso di promuovere le proprie aziende in altri mercati in crescita. Vediamo un interessante potenziale nell’Asia, nella zona indiana e in quella sud-orientale, ma anche un riaffermare la partnership con paesi quali Corea del Sud e Giappone, mercati sofisticati e molto interessati al prodotto italiano di qualità.
Il Medio Oriente continua a dare segnali positivi, che saranno da confermare se la situazione politica si stabilizzerà. Nuove fasce di consumatori sono alla ricerca di prodotti premium e luxury, soprattutto nelle capitali del Golfo. La vera scommessa riguarda però l’accordo con il Mercosur per tutta l’America Latina, che rappresenta la frontiera più interessante. Non esiste dunque, un singolo mercato “sostituto” della decrescita della Cina o ai dazi Usa, ma una pluralità di destinazioni da presidiare, con strategie diverse e molto mirate.
Un primo rallentamento nei consumi del settore moda si è osservato giocoforza negli anni a ridosso della pandemia. A suo avviso, da allora è cambiato qualcosa nelle abitudini dei consumatori?
Assolutamente sì, la pandemia ha accelerato fenomeni che forse erano già in corso.
Il consumatore oggi è più selettivo, più attento al valore del prodotto e cerca motivazioni autentiche per acquistare: storia, artigianalità, sostenibilità, identità del brand. È finita un po’ la stagione dell’acquisto compulsivo: il cliente valuta, si informa, confronta.
Inoltre, è cambiata la relazione con il digitale: l’e-commerce, anche nel lusso, è diventato imprescindibile, ma il consumatore pretende che l’esperienza digitale sia integrata a quella fisica, coerente, fortemente personalizzata. Un’altra trasformazione importante riguarda la sensibilità etica: molti clienti ora desiderano sapere come viene prodotto un capo, da chi, con quali materiali, e in quali condizioni di lavoro. Questo ci obbliga a una trasparenza sempre crescente. È una sfida impegnativa, che la nostra supply chain ha accolto già da molti anni, ora però diventa un’opportunità imperdibile per il nostro made in Italy, che ha moltissime storie virtuose da raccontare. Infine, il punto chiave: si sta passando da un acquisto di un prodotto a una scelta esperienziale. Ecco perché i grandi brand della moda oggi investono nell’hotellerie, nell’home design e nel food e travel.
È quindi ormai un ecosistema di prodotti ed esperienze ad interessare i consumatori e noi imprenditori italiani dobbiamo approfittare di questo cambio di paradigma.
Oltre a ciò, da diversi anni ci si interroga sulla sostenibilità ambientale del settore. Come sta evolvendo l’industria della moda per rispondere alle sfide poste dalla transizione ecologica?
La moda italiana sta compiendo passi importanti verso la sostenibilità, con l’uso crescente di fibre riciclate, tessuti bio-based e finissaggi meno impattanti, e investendo nella tracciabilità digitale tramite blockchain e QR code. Confindustria Moda è impegnata sullo sviluppo della circolarità della filiera: in Italia esiste da tempo il settore della raccolta e selezione dei rifiuti tessili per il riutilizzo, ma manca ancora un comparto strutturato di riciclo tessile, oggi limitato al recupero delle sole frazioni nobili. Proprio per colmare questo gap e rafforzare la resilienza e competitività del settore, Confindustria Moda ha già presentato nel 2021 una strategia industriale complessiva per una transizione sostenibile, proponendo l’introduzione di un regime EPR (Responsabilità Estesa del Produttore) nel tessile, ora in via di definizione da parte del ministero delle Imprese e del made in Italy e del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.
Inoltre, ha avuto un ruolo proattivo nel sensibilizzare le aziende sui cambiamenti necessari e ha costituito nel marzo 2022 il consorzio Retex.green, sistema collettivo per la gestione dei rifiuti tessili a fine vita, in vista del futuro EPR tessile italiano, consorzio che ha già permesso di raggiungere importanti risultati in termini di riciclo di rifiuti pre-consumo delle aziende tessili.
La filiera della moda è composta in larga maggioranza da Pmi, se non addirittura da microimprese. Come salvaguardare il patrimonio di competenze, in vista peraltro di un ricambio generazionale ormai prossimo che riguarderà molte di loro?
Questa è la grande questione strategica del nostro settore. Il made in Italy è forte perché esiste un tessuto di imprese piccole e medie, capaci di altissima specializzazione. Ma molte di queste aziende sono familiari e il tema del ricambio generazionale è cruciale.
Dobbiamo lavorare su più piani. Innanzitutto, sulla formazione tecnica: scuole, ITS, accademie e percorsi universitari devono essere sempre più strettamente collegati con il mondo dell’impresa, per preparare giovani altamente qualificati. Occorre rendere più attrattivo il lavoro nella manifattura moda: dobbiamo raccontare ai ragazzi che lavorare nella moda non significa solo “stilisti e passerelle”, ma anche prodotto e processo legati a tecnologia, innovazione e sostenibilità.
Inoltre, serve un supporto alla managerializzazione delle Pmi: aiutare gli imprenditori ad aprirsi a nuove competenze manageriali può fare la differenza per la continuità aziendale.
Infine, sul fronte delle politiche pubbliche, servono incentivi che favoriscano il passaggio generazionale e la patrimonializzazione delle imprese, perché la dimensione e resta un tema delicato per la tenuta futura di molte Pmi del nostro comparto.
Quali azioni auspica Confindustria Moda da parte del governo a rafforzamento del settore?
Il settore moda è uno dei pilastri dell’economia italiana, ma rappresenta anche un patrimonio culturale e identitario unico al mondo. Proprio per questo, ci aspettiamo dal governo un riconoscimento concreto del nostro valore strategico e misure capaci di accompagnarci nelle tante sfide che stiamo affrontando.
Serve un forte sostegno alla formazione tecnica e professionale. Abbiamo bisogno di formare nuove generazioni di artigiani, tecnici, designer e manager, pronti a raccogliere il testimone e a mantenere alto il livello di eccellenza che contraddistingue il made in Italy. Senza competenze qualificate rischiamo di disperdere un patrimonio unico di saper fare.
Un altro tema centrale è quello della transizione ecologica. Le nostre imprese, soprattutto le più piccole, sono pronte a fare la loro parte sul fronte della sostenibilità, ma non possono affrontare da sole i costi dell’innovazione green. Occorrono incentivi fiscali e strumenti finanziari che rendano possibile investire in tecnologie, processi produttivi e materiali a basso impatto ambientale.
Fondamentali sono anche politiche di internazionalizzazione mirate. Oggi più che mai, in un contesto geopolitico incerto, le aziende italiane devono poter contare su strategie di supporto per presidiare mercati nuovi e consolidati, promuovere il prodotto italiano e affrontare eventuali barriere commerciali.
Chiediamo poi una tutela più efficace del nostro “made in Italy”. È indispensabile contrastare con maggiore determinazione fenomeni come l’Italian sounding e la contraffazione, che danneggiano in particolare le piccole imprese e minano la credibilità dell’intero comparto. Infine, auspichiamo un sostegno deciso alla digitalizzazione, che non riguarda soltanto l’e-commerce ma l’intera filiera produttiva. Dalla gestione della supply chain alla tracciabilità dei prodotti, il digitale è ormai uno strumento imprescindibile per restare competitivi sui mercati internazionali. Tutto ciò rientra in un Piano Strategico Nazionale 2035 che intendiamo presentare al governo affinché si passi da misure reattive ad azioni proattive di lungo periodo, politiche che su questo comparto non sono mai esistite.
La moda italiana genera valore economico, occupazione ed export, ma soprattutto contribuisce a portare nel mondo l’immagine dell’Italia migliore. Con regole chiare, strumenti di sostegno adeguati e una visione condivisa tra pubblico e privato, sono certo che sapremo affrontare anche le sfide più complesse dei prossimi anni.”