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Perché le infrastrutture sono lo specchio di un sistema. Intervista a Bruno Dalla Chiara

15.01.2019

di Cristian Fuschetto

Una grande infrastruttura forse non basta a garantire di per sé l’aumento di benessere, certo è che da sola può cambiare il tessuto economico di un territorio e far emergere potenzialità inespresse. “Purché sia fatta bene”, precisa Bruno Dalla Chiara. Docente di Trasporti al Politecnico di Torino, a Dalla Chiara interessano poco le polemiche, traccia uno scenario di ampio respiro e spiega come dall’Impero Romano ai Gran Ducati fino agli Stati moderni, la competitività dei sistemi di trasporto sia stata sempre lo specchio della competitività dei sistemi-paese. A dimostrarlo, oltre alla storia, sono come sempre i numeri. “Basta tener presente poche cifre per capire come una rete di trasporto possa inaugurare situazioni totalmente nuove”.

A quali cifre si riferisce? In che senso e in che proporzioni delle infrastrutture possono generare nuova domanda?
Ecco le cifre. Nel 1982 è stata inaugurata la prima linea ad Alta Velocità d’Europa, la Lione Parigi. Il primo anno registrò 7,2 milioni di viaggiatori, l’anno scorso ne ha contati 44,4 milioni con 240 treni in media al giorno. Per chi conosce anche solo un minimo i sistemi ferroviari, 240 treni al giorno su due direzioni vuol dire che si è di al cospetto di una tratta quasi satura, sfruttata in modo ottimale.

Le performance della prima linea ad Alta Velocità d’Europa ci dice qualcosa anche sull’Europa in generale e su cosa fare in futuro?
Credo proprio di sì. Mi lasci dire a tal proposito che l’Europa è partita molto bene su questo fronte progettando agli inizi degli anni ’80 le Reti di trasporto Trans-europee con l’obiettivo di fare dell’Europa una macro regione, un’intuizione molto importante perché un’Europa di terminali connessi in rete mi pare avere più futuro rispetto allo sviluppo di qualche megalopoli con il conseguente indebolimento di città storiche. Come sempre accade, tra il dire e il fare ce ne passa e oggi ci ritroviamo con molte reti nazionali completate o in via di completamento, ma con poche connessioni transnazionali.

A che punto è la rete nazionale italiana ad alta velocità?
La rete ad alta velocità ferroviaria è in parte realizzata: Milano, Bologna, Roma, Napoli sono diventate nodi effettivi di un’infrastruttura che funziona. Francia, Germania, Spagna, con numeri differenti hanno fatto e continuano a fare la loro parte. Serve andare avanti investendo bene e tenendo presente quel che appunto accennavo prima.

Cioè?
E cioè che un servizio di trasporto di qualità genera una nuova domanda con target di pari livello. E non lo dico io, anche in questo caso lo dicono i numeri. Pensiamo alla metropolitana automatica di Torino, inaugurata in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006. In quell’anno i passeggeri della metro furono 7 milioni, nel 2015 sono stati 41 milioni. O ancora, la linea Alta Velocità Torino-Milano nel 2009 aveva sette coppie di treni feriali, nel settembre di quest’anno ventotto coppie per Trenitalia e ventuno per NtV. Come dire, l’esigenza di mobilità non è una variabile indipendente, varia a seconda dell’offerta di mobilità.

Potrebbe indicare, se ce ne sono, delle criticità emerse o cui bisogna fare particolare attenzione?
Guardi, io sono un tecnico e voglio essere concreto. Se guardiamo i fatti, la storia dell’Alta velocità ci dice che una criticità c’è e riguarda il trasporto merci. La linea ad Alta Velocità è nata a uso promiscuo, passeggeri e merci. Ecco, mi sa dire quante merci hanno viaggiato sull’Alta Velocità?

Non lo so. Quante?
Zero.  Ora, è vero che non si può promettere ciò che non si è mantenuto, eppure questo dato non significa che le merci non possano mai viaggiare sull’Alta Velocità. Il fatto è che treni adatti a farlo finora, semplicemente, non esistono. I treni-merce non devono andare a 250 Km/h ma basta la velocità di 160. Devono però avere corrente su tutto il convoglio, devono essere forniti di potenza distribuita e tele-diagnosticabili. Il fatto che non vi siano significa che non servono? Nient’affatto.

Potrebbe essere una buona occasione per l’industria italiana?
Senz’altro, perché l’Italia è uno dei pochi poli industriali in grado di produrre treni del genere. E qui entrano in gioco le questioni politiche di grande respiro, perché le aziende che devono produrre treni del genere devono essere messe nelle condizioni di poterlo fare con obiettivi certi, progetti e cronoprogrammi attendibili. Solo così le imprese possono investire e il sistema può beneficiare di un nuovo servizio.


Articolo pubblicato sul n. 6/2018 di Civiltà del Lavoro

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