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Luigi Abete racconta 25 anni al vertice di Bnl

02.02.2021

“Mi avvio alla conclusione di questo mio lungo impegno con la profonda soddisfazione di aver contribuito a realizzare un progetto complesso, di respiro europeo ma con una forte impronta nazionale». Luigi Abete, Cavaliere del Lavoro, ha annunciato nei giorni scorsi che a fine aprile, con l’assemblea di approvazione del bilancio e rinnovo del cda, lascerà la presidenza della Bnl, che ricopre dal 1998, anche se faceva parte del consiglio dal 1996, appena lasciata la presidenza di Confindustria. Un quarto di secolo complessivamente, quindi, che ha visto un radicale cambiamento del sistema bancario e della stessa Bnl, la “banca del Tesoro” per quasi un secolo che oggi è parte del gruppo Bnp Paribas.

Presidente, Abete, una decisione quindi del tutto concordata con l’azionista, anche perla successione?
Già due anni fa avevo espresso al ceo del gruppo, Jean Laurent Bonnafé, la mia intenzione di non andare oltre questa scadenza, considerando esaurito il mio compito. Nel gruppo c’è la regola dei 7o anni, un’eccezione è stata fatta per me tre anni orsono, ma io non ero interessato alla seconda che di fatto fa decadere la regola. La nuova linea di governo è già stata delineata.
Sono molto soddisfatto della decisione sulla successione alla presidenza di Andrea Munari, da cinque anni un ottimo amministratore delegato che ha innalzato il livello competitivo della Bancae che ha valorizzato il coordinamento delle altre attività del Gruppo in Italia. Accanto a lui, ci sarà Elena Goitini, la prima donna amministratore delegato di una grande banca in Italia, individuata all’interno del gruppo.

Una lunga stagione perla Bnl, la sua, che ha visto molte vicende e decisioni, a partire dalla privatizzazione.
Posso dire, prima di tutto, che le decisioni prese nel tempo hanno permesso una stabilizzazione della Bnl con ampio anticipo sugli scenari problematici che via via si sono manifestati. La privatizzazione da parte del Tesoro, all’epoca ministro era Carlo Azeglio Ciampi, fu il primo grande passo.

Il primo tassello di un percorso che ha portato all’integrazione con Bnp Paribas.
Questa scelta è stata il frutto di un processo che ha coinvolto tutta la comunità Bnl, comprese tutte le rappresentanze dei lavoratori, confederali e di categoria. Avevamo tre strade: o restare da soli, “stand-alone” si diceva, con tutti i rischi che sarebbero sorti dalle varie crisi e che oggi investono altre realtà. La seconda era integrarci con un gruppo italiano, il che avrebbe inevitabilmente comportato la scomparsa del marchio e quindi anche di molte delle nostre specificità, oppure essere parte di un gruppo multinazionale, unica strada per mantenere l’identità di banca italiana.

Cosa ha significato per una banca che fa parte della storia d’italia?
Il successo dell’operazione, posso dire, è il frutto di tre impegni: condividere il dna di Bnl con quello di Bnp Paribas, mantenere e consolidare l’identitià aziendale, sia nella percezione diffusa che nelle relazioni con la clientela, e infine consolidare il rapporto con i territori. Basta pensare alla nostra sede, Orizzonte Europa, che ha comportato un investimento di 300 milioni: è la principale realizzazione urbanistica a Roma da molti anni dopo l’Auditorium. E poi ha un forte significato europeo: siamo tra Via Altiero Spinelli e via Beniamino Andreatta, entrambe sorte su nostra proposta al Comune.

Quindi l’ad diventa presidente, e un’alta dirigente diventa ad. Che cosa si prospetta davanti, visto anche il periodo drammatico che stiamo attraversando?
È necessario avere uno sguardo lungo, una visione perlomeno decennale. Io posso dire di aver presieduto la Bnl 2.0. Ad Andrea spetta – unitamente a Elena – la guida della Bnl 3.0, una sfida imposta dalle trasformazioni continue di cui BN è già alla frontiera più avanzata della trasformazione digitale.

Pronto per altri impegni?
A fine 2020 ho lasciato anche l’ultimo ruolo esecutivo che avevo nelle controllate di famiglia a mio figlio Antonio. Dal 1992, anno in cui sono diventato presidente di Confindustria, sono sempre stato in prima linea. Per ora resto presidente di Fondazione Bal – che si occupa di solidarietà, terreno molto affine alla mia cultura e rappresenta uno dei temi forti del mondo di oggi – e della Luiss Business School, un incarico che considero molto delicato, per la formazione dei giovani da parte del ceto dirigente, la cui legittimità deriva dalla capacità pedagogica e di essere esemplare nei comportamenti. E in ogni caso sono sempre stato attore del mio cambiamento: sono un imprenditore e la mia cultura e il mio carattere mi spingono ad individuare nuove sfide e a mettermi in gioco periodicamente. Nella sua stagione in Bnl ne ha viste di tutti i colori. Ci sono alcuni momenti decisivi. La privatizzazione, che doveva coinvolgere anche il Banco di Napoli, per il quale poi fu presa altra decisione, per il San Paolo.

Poi l’ipotesi con Mps?
Erano gli anni 2001-2002, e i colloqui erano andati molto avanti. Ma si bloccarono sulla richiesta di Mps di fare una integrazione a valori diversi e non alla pari, facevano pesare il nostro dossier sull’Argentina. Inoltre a impedire l’accordo fu anche la mancanza di intesa sulle posizioni future alla guida operativa, a cui c’erano diverse aspirazioni. Infine per me voleva dire di fatto ri-pubblicizzazione, visto che Mps all’epoca era controllato dal Comune attraverso la Fondazione, che voleva mantenere una minoranza di blocco. Poi la stagione dei patti e del contro-patti, delle opa, delle contro-opa, del Bbva e dell’arrivo sulla scena di Unipol. Questa è la storia dei due anni tra 2004 e 2005, che partì con un nostro aumento di capitale.

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