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Il nuovo Patto di stabilità e crescita: opportunità e rischi per l’Italia. | Civiltà del Lavoro 6/2023

19.02.2024

di Francesco Giavazzi

Articolo pubblicato nella rivista n.6/2023 di Civiltà del Lavoro

 

La necessità di regole fiscali per i paesi europei dell’area euro, il cosiddetto Patto di stabilità e crescita, deriva dal fatto che la moneta unica ha determinato una riduzione dei tassi d’interesse e dunque occorre evitare che i singoli stati ne approfittino e spendano troppo, minacciando la stabilità finanziaria di tutti. Entro l’anno il Consiglio europeo dovrebbe decidere. Nel novembre 2022 la Commissione europea ha avanzato la sua proposta, frutto del lavoro del commissario Paolo Gentiloni, che ricalca le idee esposte il 24 dicembre 2021 in un articolo sul Financial Times dal presidente Macron e dal presidente Draghi.

Si tratta di superare quelle che il presidente Prodi definì “regole stupide”, sia perché si sono sovrapposte nel tempo e sono diventate molto complicate, sia perché hanno al proprio interno una serie di numeri che non hanno base scientifica, non sono frutto dell’esperienza o di un teorema matematico, ma solo del compromesso politico. Questi numeri irrigidiscono le regole del Patto e le rendono pro-cicliche: il che significa che quando l’economia va male, le regole obbligano a ridurre le spesa pubblica e dunque la situazione peggiora. Lo abbiamo sperimentato nel 2011, quando lo spread superò i 500 punti e il governo Monti, costretto ad applicare quelle regole, causò una recessione che per tre anni fece calare il Pil del 2% l’anno. Il Patto, che è stato sospeso per la pandemia, è poi inadeguato alle grandi sfide che l’Europa ha di fronte: dalla doppia transizione ambientale e digitale fino alla difesa comune.

La proposta presentata dalla Commissione si può definire “rivoluzionaria” perché non contiene numeri, salvo il 3% del rapporto deficit-Pil e il 60% tendenziale del rapporto debito pubblico-Pil, che sono scritti nel Trattato. Le nuove regole fiscali proposte si basano su analisi statistiche stocastiche di sostenibilità del debito pubblico di ogni Stato e non utilizzano più – come strumento per rendere sostenibile il debito – il deficit pubblico ma la spesa pubblica, al fine di evitare che gli stati, per non tagliare le spese al fine di ridurre il deficit, finiscano per aumentare le tasse, accentuando le spinte recessive. Poi le politiche per rendere sostenibile il debito le propone ciascun paese e la Commissione europea le analizza, le discute e ne controlla l’attuazione. Infine, i periodi di aggiustamento sono lunghi: da 4 a 7 anni per i paesi che si impegnano a fare interventi di sostenibilità ambientale, con la condizione che i governi non possono fare tutto l’aggiustamento concordato il settimo anno, ma devono agire anno per anno.

Questa proposta è stata criticata dai paesi cosiddetti “frugali”, tra cui la Germania, perché sette anni sono giudicati troppi e perché la sorveglianza sull’attuazione dei piani di aggiustamento è solo della Commissione, giudicata troppo condizionabile. Altri paesi hanno criticato il fatto che questa proposta non prevede obiettivi quali la sostenibilità e la digitalizzazione. Un possibile compromesso al quale si sta lavorando in queste settimane prevede l’accettazione del ruolo della Commissione, ma l’inserimento di alcune salvaguardie minime per garantire che gli aggiustamenti vengano fatti: la Germania ha proposto la riduzione minima del debito dell’1% l’anno (che potrebbe scendere allo 0,5% o allo 0,35%), ma questo è un pericolo perché reinserirebbe nel Patto un elemento pro-ciclico.

Il nostro governo ha chiesto che nel Patto futuro non siano conteggiati i debiti contratti per alcune materie, come l’ambiente o la difesa, la cosiddetta Golden rule (regola aurea): ma questo non accadrà mai per l’opposizione dei paesi “frugali”. Si può al massimo ottenere che il 60% dei 194 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza che prenderemo a prestito siano trattati diversamente nella valutazione della sostenibilità del nostro debito. I debiti, infatti, non sono tutti uguali e debiti diversi andrebbero trattati differentemente, come è accaduto col Next Generation Eu (Ngeu), che nei Pnrr dei diversi paesi ha previsto il 40% di fondi a carico dell’Unione europea. Inoltre, per affrontare le sfide attuali, l’UE deve dotarsi di capacità fiscale comune, avere un suo bilancio ed emettere debito, come accaduto appunto per il Ngeu.

Solo così l’Europa potrà sostenere la transizione verde, che è molto costosa, incentivando le imprese come stanno facendo gli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act (Ira) da 370 miliardi di dollari, lanciato dal presidente Biden per sostenere gli investimenti ambientali delle imprese basate in Usa; tanto è vero che molte aziende europee stanno progettando di andare a produrre in America. È infine necessario che l’Unione europea crei un’Agenzia del Debito che rilevi i titoli pubblici dei vari paesi acquistati dalla Bce durante la pandemia. Negli Usa il debito dei vari stati è tutto uguale perché i dollari e i tassi d’interesse sono uguali. In Europa, invece, i debiti dei singoli Stati pagano interessi diversi e complicano molto l’attività della Bce. L’Agenzia del Debito dovrebbe emettere proprio debito e con questo comprare i titoli detenuti dalla Bce. Ciò richiede, però, che i paesi europei siano credibili e affidabili, perché dovranno pagare gli interessi all’Agenzia.

Per concludere, occorre evitare la reintroduzione di regole pro-cicliche e troppo rigide, anche perché è stato varato un meccanismo chiamato Transmission Protection Instrument (Tpi) che consente alla Bce di intervenire in caso di difficoltà finanziare di un paese, purché esso sia in regola col futuro Patto di stabilità. Se questo fosse troppo rigido e i mercati capissero che un paese ad alto debito non riuscisse a rispettarlo, farebbero immediatamente aumentare gli spread, causando proprio quell’instabilità che il Patto si propone di eliminare.

 

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