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Giovanni Arvedi: L’acciaieria è la mia vita ma ora passo

21.02.2021

II Cavaliere cede la presidenza al nipote Mario Caldonazzo: «ll dado è tratto ma resterò alla guida di Finarvedi. Mai fatto dividendi: ho sempre reinvestito»

La storia. La mission. Il futuro. Senza presunzione. Ma con grande orgoglio. A sei mesi dagli 84 anni che compirà il 28 agosto, il Cavaliere del Lavoro Giovanni Arvedi si racconta, gioca a carte scoperte, e affida a La Provincia un importante annuncio. Solo un anno e mezzo fa, il 14 ottobre 2019, aveva «aperto» il Consiglio di Amministrazione del gruppo industriale che porta il suo nome e nominato amministratore delegato suo nipote Mario Caldonazzo. Sedici mesi e una pandemia dopo, compie il secondo passo e completa il passaggio generazionale ufficializzando un passo indietro preparato da tempo.

«Perché sono fatto così – spiega il Cavaliere, quasi con imbarazzo -: non amo gli imprevisti, preferisco guardare sempre avanti e programmare. L’Acciaieria Arvedi, dopo anni di investimenti, ottimizzazione tecnologica, ristrutturazione industriale, formazione professionale e solidità finanziaria ora ha raggiunto la piena autonomia gestionale, come tutte le altre imprese del Gruppo create da campo verde. Mio nipote Mario è in Acciaieria da quasi trent’anni, così come gli altri miei nipoti e manager: sono tutti professionalmente preparati e hanno dimostrato un grande impegno e una grande capacità di lavoro, contribuendo allo sviluppo dell’Acciaieria. Le persone indipendenti al Gruppo fanno parte del CdA della società Finarvedi e sono persone di affermata alta qualità professionale».

Cavaliere, sta dicendo che lascia la presidenza dell’Acciaieria che ha fondato 48 anni fa nell’ormai lontano 1973?
«Sì. Il Consiglio di amministrazione è già stato informato. Il dado è tratto».

Lei cosa farà, adesso? E difficile immaginarla inattivo.
«Non resterò inattivo, rimango presidente di Finarvedi e continuerò a seguire da vicino il consolidamento della struttura gestionale dell’Acciaieria».

Quando iniziò a costruirla aveva solo 36 anni, anche se la sua famiglia era attiva nel commercio e nella lavorazione dei metalli già da molto tempo: secondo Wikipedia, addirittura dal 1715. Fu una pazzia o già allora era un’idea ponderata?
«I miei avi, in verità, lavoravano il rame già nel 1650: avevano una piccola miniera in Val di Sole, vicino al fiume Foce, località Fucine, non a caso. Dal Trentino scesero a Casalbuttano: lo zio Fortunato costruiva impianti lattiero-caseari. L’idea di creare l’Acciaieria a Cremona era tutto, meno che una follia, perché in campo siderurgico non si può improvvisare. Come per le rotative dei giornali e i cementifici, se uno sbaglia a progettare gli impianti è meglio che li chiuda e li venda. Le intuizioni nascono dalla cultura e dall’entusiasmo. Il mio obiettivo non era produrre acciaio, ma produrlo in modo nuovo. Avendo visitato tantissimi impianti nel mondo, dal Giappone agli Usa, dall’Unione Sovietica alla Germania, mi ero reso conto che già allora erano superati. Anche perché ogni impianto di fatto era una grande città: aveva bisogno di 30-40 mila persone per funzionare, servivano case, scuole, mense… Un po’ ciò che è successo qui da noi a Taranto e Trieste».

Quale fu il primo mattone?
«L’uomo ha iniziato a lavorare dietro l’animale. Poi è salito sull’animale. E poi ha sorpassato l’animale. E sono arrivate le macchine. Ma il vero scatto in avanti è stato un altro: usare le macchine con il cervello, anziché con le mani e i piedi. Oggi basta schiacciare un bottone per spostare il mondo: è un miracolo. Ed è tutto merito del microprocessore, il software che sostituisce l’operatività dell’uomo. Negli anni ’70 sono stato il primo a installare il microprocessore sulla macchina della colata continua, perché intuii che solo quello mi avrebbe assicurato la ripetitività dei gesti che l’uomo non può garantire. E un’adeguata rapidità di esecuzione».

Chi la conosce bene rivela che la sua nuova passione è l’agricoltura: è vero che in provincia di Cremona sta realizzando la più bella azienda agricola d’Italia?
«Io penso che l’agricoltura del futuro avrà bisogno di ingenti investimenti per soddisfare le disposizioni di sostenibilità fissate dalla Comunità Europea. Le mie aziende sono centri di profitto e grazie ai miei bravi collaboratori ottengono risultati soddisfacenti. Ora cercheremo, con umiltà, di fare un nuovo passo verso la soluzione di problemi di base comuni a tutta la nostra importante zootecnia».

Lei ha sempre avuto il pallino della qualità: se una cosa si può fare, si deve fare al meglio
«Si, perché spesso costa anche meno: come dice il proverbio, alla distanza chi più spende, meno spende. Prima di tutto, però, ci sono le priorità della cultura e della partecipazione personale e il ringraziamento per i talenti ricevuti, ognuno per i suoi. Io credo che la qualità si possa ottenere quando l’uomo offre il meglio del suo spirito e del suo intelletto».

II futuro del mondo, non solo dell’economia, si racchiude in una parola: sostenibilità. Sostenibilità ambientale, innanzitutto, ma anche etica e sociale: una sfida che va dal rispetto dei diritti di tutti alla diversità di genere. Da grande capitano d’industria del Novecento, come giudica queste nuove sensibilità?
«È fuori di dubbio che il fondamento dell’etica è la persona umana: come nel sociale, se non si dà giustizia non si promuove il bene comune. Mi pare che la situazione del nostro pianeta sia chiara a tutti in modo ineludibile. Le priorità in un mondo che ha raggiunto stati di benessere soddisfacenti cambiano come cambieranno molti altri metodi di lavoro. Quello che deve rimanere sempre fermo e presente è il rispetto per la natura, dei valori umani e della dignità della persona. Abbiamo soddisfatto le nostre esigenze, ora è urgente soddisfare quelle del nostro pianeta».

Lei ricorda sempre che ambisce ad essere «un buon cristiano», prima che un grande imprenditore: come si conciliano i valori del Vangelo con le logiche del business?
«Io credo, come premessa, che Dio sia presente nella realtà e che tutte le cose siano un suo dono; noi non possediamo niente di nostro, solo le buone idee rimangono. Penso che un compito dei cristiani sia cercare di inserire la loro fede nel mondo che li circonda e oggi ancora più nel mondo della tecnica; quando prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione di fini e di mezzi. I cristiani è bene che cerchino di vivere la loro vita come un meraviglioso dono di Dio e ringraziarlo con le loro opere al meglio delle loro possibilità. L’imprenditore cristiano viene sorretto e guidato dalla fede. Certo, la fede è un atto interiore e personale, ma suppone qualche cosa di esterno e di oggettivo. “La fede senza le opere… “. Io penso che dobbiamo operare nell’interesse delle nostre imprese, della comunità in cui viviamo, per il nostro Paese, nel solco dei preziosi insegnamenti del Vangelo, senza danneggiare mai il nostro prossimo, dove vediamo la presenza di Dio. Se io sapessi che il mio lavoro fa male al mio prossimo, smetterei. Per parlare di cose pratiche in 60 anni e più di lavoro le mie aziende non hanno mai distribuito dividendi: ho sempre cercato non di accumulare ricchezza, ma di investire nelle aziende e di creare posti di lavoro».

Il suo modello di riferimento è Adriano Olivetti, l’imprenditore che negli anni Cinquanta seppe trasformare la fabbrica nella «casa» dei suoi dipendenti, ma oggi quel modello è ancora possibile?
«Nel giusto rapporto, mi pare possa essere la migliore soluzione per tutti. Ma non è facile. Personalmente ho iniziato alla fine degli Anni 60 ad avere responsabilità industriali di un certo rilievo. A quei tempi Milton Friedman, uno dei più autorevoli economisti del mondo, scriveva un famoso articolo sul New York Time “The social responsability of business is to increase its profits?” La responsabilità sociale degli affari è incrementare il profitto? Dopo 50 anni non mi sembra la migliore teoria, io fin da allora ho pensato e agito diversamente».

Non bastassero tasse e burocrazia, si può essere competitivi anche garantendo ai propri dipendenti un ambiente di lavoro sano, un buon welfare aziendale e un salario adeguato? Tutti questi obiettivi possono essere raggiunti nonostante la concorrenza internazionale di chi ha meno vincoli, meno regole da rispettare e un costo del lavoro più basso?
«Io sostengo da tempo, da sempre, che lavorare nella sicurezza e nel rispetto dell’ambiente va a beneficio dell’azienda stessa. Quello che sa creare l’uomo può e deve essere gestito e controllato saggiamente dall’uomo culturalmente preparato e disponibile agli investimenti. L’eccezione è quando l’uomo crea qualcosa al di fuori delle leggi fisiche della natura, per esempio le scorie nucleari. Quanto alla concorrenza nel mercato internazionale, c’è una forte aggressività da parte dei Paesi asiatici: l’Europa deve reagire, ma le specifiche esigenze non solo economiche di ogni Paese sono un grave problema. Non bastasse, alcuni Paesi extra europei svalutano la loro moneta per essere più competitivi all’esportazione, per non parlare del carbon border adjustment, che di fatto è concorrenza sleale. Mio nipote Mario come vice presidente di Eurofer partecipa a riunioni a Bruxelles in cui questi problemi vengono affrontati, certo non senza difficoltà, in quanto i Paesi della comunità sono 27 e ognuno ha diverse priorità».

Quanti dipendenti ha oggi il Gruppo Arvedi?
«Circa 4.000 diretti».

Li conosce tutti di persona?
«Ora purtroppo non più. In passato passavo volentieri le mie domeniche mattine in azienda, proprio per vedere gli impianti e parlare con i miei operai. Allora li conoscevo tutti e questo, sento, che mi manca un po’. Oggi mi devo accontentare di avere il piacere di salutarci, sempre con il reciproco rispetto».

Durante i primi mesi della pandemia qualcuno eccepì sul fatto che le sue aziende non si fossero fermate. E si rivolse alle autorità che, dopo una serie di approfonditi con trolli, arrivarono a un’importante conclusione: il posto più sicuro per non prendere il Covid era l’Acciaieria Arvedi. Come ci siete riusciti?
«Era un problema che seguivo da tempo, sulla base dei resoconti di nostri collaboratori e clienti che arrivavano dalla Cina. Ne discutevo spesso con i miei manager, perché il rischio implicava anche aspetti economici. Quando la pandemia è esplosa in Europa mio nipote Mario insieme ai nostri bravi medici, ai nostri sanitari, ai responsabili di reparto, ai responsabili del personale e a un gruppo di operai ha preparato un protocollo sanitario per tutti i dipendenti e per chiunque entrava nel nostro stabilimento. La qualità delle norme e la rigorosa severità nella loro applicazione hanno dato ottimi risultati, tanto che Asl di altre città ci hanno chiesto copia del nostro protocollo. Siamo molto fieri e orgogliosi di essere stati d’esempio perché era in gioco la salute nostra e dei nostri lavoratori, i quali anche con l’aiuto del gruppo dei loro rappresentanti (RLS) hanno dimostrato una collaborazione e una partecipazione che rimarranno per sempre nei nostri cuori».

Lei ha paura del Covid?
«Molta, cerco di ragionare».

Fra «molta» e «cerco di ragionare» serve un «ma»?
«Bella domanda, che presupporrebbe una risposta molto complessa. Venerdì mi sono vaccinato, ma la paura resta, anche perché il virus è imprevedibile e muta di continuo».

Il vaccino sembrava lontano e, invece, seppur in maniera lenta e faticosa, è già in distribuzione nel mondo e anche qui, da noi: in base alla sua esperienza, l’economia italiana riuscirà a resistere fino alla cessata emergenza Covid, per poi risollevarsi e ripartire?
«Me lo auguro di cuore. Gli Italiani sono un popolo unico, capace di grandi espressioni. Lo abbiamo visto chiaro anche nei tempi passati».

La pandemia ha colpito più le piccole imprese, a partire da commercianti e artigiani, o la grande industria?
«Il mercato è globale e ha colpito ogni comparto: tutti, grandi e piccoli, hanno dovuto ridurre la produzione a causa della riduzione dei consumi».

Il Governo italiano secondo lei è stato all’altezza delle sfide imposte dalla pandemia?
«Forse nella prima fase, meglio della seconda».

Se lei fosse il presidente del Consiglio, quale sarebbe il suo primo provvedimento per uscire dall’emergenza e rilanciare il Paese? «Non è facile in Italia, ma io penso a un piano per uscire dall’emergenza Covid e riformare la giustizia. Serve stabilità per ridare fiducia e c’è bisogno di un piano industriale e fiscale che individui e porti a soluzione rapida interventi a breve e medio termine con attenzione a Università, sostenibilità e digitale».

La Cina è un modello, un’opportunità o una minaccia?
«Domanda complessa. In Cina abbiamo venduto molti impianti con la nostra tecnologia e sono stato molte volte in visita. È un Paese in cammino, in costante trasformazione, con grandi squilibri che hanno bisogno di tempo e di stabilità».

Cavalier Arvedi, il progresso none solo evoluzione tecnologica, ma anche e soprattutto comunicazione. E lei è stato uno dei primi a capirne l’importanza: non a caso è stato azionista del Corriere della sera e oggi è anche editore, con una propria tv, Cremonal, un sito, Cremona Oggi, e un giornale di carta, il settimanale Mondo Padano. Quali sono le prospettive in questo campo?
«L’umanità si sviluppa e tutte le rivoluzioni industriali si sono basate su due principali fattori: l’energiae la comunicazione. La vicenda della Rizzoli e del Corriere della sera fu al tempo stesso una passione e una sfida. A quel tempo la Rizzoli non la voleva nessuno: solo io e il bravo avvocato Guzzetti, allora presidente della Regione Lombardia, non perdemmo le speranze che le famiglie milanesi avevano abbandonato. Vennero l’avvocato Agnelli, il professor Bazoli, poi il dottor Schimberni e si trovò una soluzione al salvataggio, con il supporto di Mediobanca. Fu un periodo molto interessante per me. Sono e resterò sempre innamorato della carta, per poi poterne discutere con il mio prossimo guardandolo negli occhi».

Non abbiamo citato i nuovi me dia: lei che rapporto ha con i social network?
«Domanda difficile. Per me si tratta di una tappa segnata dall’esplosione della comunicazione come fenomeno antropologico, sociale, economico e politico; un fenomeno che può rappresentare un salto di qualità per la conoscenza e nella prassi umana, ma che riduce l’uomo a una sua dimensione naturale che si allontana dal prossimo, da Dio, dalla vita e dalla bellezza. Nonostante tutto
questo, ho fiducia. Per essere più chiaro: io sostengo che la creatività venga dallo spirito e non dalla logica, altrimenti faremmo qualcosa che esiste già. Lo spirito non si alimenta dalla tecnica e la fiducia smisurata nella scienza ha i suoi limiti, Lo abbiamo visto purtroppo recentemente: basta un microrganismo per mettere il mondo in ginocchio».

Il presidente Mattarella è nato nel 1941 e quest’anno compirà 80 anni, quattro meno di lei: qual è il segreto per restare sempre giovani? Dove trovate tutta l’energia che serve?
«Il segreto? Far restare attivi i neuroni che ogni giorno generiamo e ascoltare e far lavorare bene il nostro cuore».

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