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Un motore per le generazioni di domani

06.10.2022

All’anagrafe l’ingegner Giampaolo Dallara risulta nato il 16 novembre del 1936. Ma deve evidentemente trattarsi di un falso. 0 di un errore. Sia perché l’uomo che abbiamo di fronte dimostra molto meno dei suoi 86 anni nel fisico, nella parlata, insomma nell’aspetto esteriore; sia perché ne dimostra una ventina (non una ventina di meno: una ventina) nel modo di pensare. Di guardare al futuro. E non perché si senta immortale (non appartiene alla patetica genia dell’après moi le déluge, anzi) ma perché ha quella capacità di guardare al domani, e di investire con speranza nelle nuove generazioni, che manca drammaticamente al nostro paese. “Un paese in cerca della fiducia perduta”, abbiamo scritto lunedì 5 settembre, dicendo che il guaio dell’Italia di oggi non è la classe politica (o meglio: non è solo la classe politica) ma è il popolo, un popolo che è stato abituato (mea culpa, cari colleghi giornalisti…) a pensare che tutto sia marcio, che tutto faccia schifo, e che per i nostri figli esista una sola possibilità di salvezza: andare, o meglio scappare, all’estero.

Ecco, per dire chi abbiamo davanti: qualche anno fa Giampaolo Dallara ha investito i guadagni personali di una vita per creare una scuola, la Dallara Academy, che, in collaborazione con le università della regione e le altre grandi aziende della Motor Valley, formasse qui, in Italia, i progettisti dell’auto che verrà. E così i cervelli non scappano più, anzi quelli che erano fuggiti tornano, e così molti stranieri vengono a studiare qui da noi, perché l’Italia del motore non è seconda a nessuna nel mondo. Altro che paese finito. La Dallara ha 800 dipendenti e l’età media, calcolando anche Dallara che ha appunto 86 anni e il suo braccio destro e amministratore delegato Andrea Pontre”Qualche anno fa ho pensato: facciamo qualcosa come famiglia. Cominciamo a rendere qualcosa di quello che abbiamo ricevuto”. “L’Italia un paese finito? Un luogo comune, frutto di una narrazione sbagliata. Noi italiani proviamo un gusto sadico nel lamentarci e nell’autodenigrarci”, dice il suo capoazienda moli che ne ha 65, è di 33 anni. “Sono circondato da giovani”.

Della storia dell’auto italiana, Giampaolo Dallara è uno dei giganti. Si laurea in Ingegneria al Politecnico di Milano e viene assunto in Ferrari il 2 gennaio 1960, il giorno in cui muore Fausto Coppi il Campionissimo. Guarda un po’: nel pezzo che introduce questa serie di incontri avevamo scritto che proprio quel 2 gennaio 1960 segna simbolicamente la fine degli anni Cinquanta, quelli della sofferenza e della miseria del dopoguerra, e l’inizio dei Sessanta, quelli del boom e dell’allegria. Anni Sessanta: l’ultimo decennio felice della nostra storia. “In Ferrari mi pagavano bene, ma avrei dovuto pagare io perché lì mi hanno insegnato tutto”, confessa Dallara, e ditemi quanti di noi oggi ripeterebbero una considerazione del genere. “Ho capito che sbagliando s’impara. Ogni volta che sbagliavo mi correggevano, e io ripartivo”. “A un certo punto mi chiamò la Maserati. Io decisi di andarci perché alla Maserati mi avrebbero fatto partecipare alle corse, la mia passione. Ma non avevo il coraggio di dirlo a Enzo Ferrari. Così, ne inventai una: gli dissi che avevo necessità di tornare vicino a casa, e che quindi sarei andato a lavorare con mio padre”. “Casa”, per Dallara, è un paesino di 2.583 abitanti nella bassa valle del Ceno, in provincia di Parma: si chiama Varano de’ Melegari ma nessun parmigiano (anzi nessun parmense, perché i parmigiani sono quelli di città, e quelli di provincia son detti parmensi) lo chiama mai così; Varano Melegari, dicono, e tirano via quel de’ che sa inutilmente di nobiliare. Vedremo più avanti quanto siano importanti, per Dallara, queste radici. E comunque, la Maserati! Altro mito della terra del motore. L’Emilia. Il tridente. Pochi sanno che il simbolo della Maserati è il tridente perché una delle primissime sedi della fabbrica era in centro a Bologna, praticamente in piazza Maggiore, nell’attuale Sala Borsa: e da quel palazzo, quando uscivano, fatte scendere su una tavola di legno messa sopra i gradini, le auto si trovavano di fronte il Nettuno, con appunto il suo tridente. La Maserati. Il ritorno a casa per lavorare con il padre. Il Drake non ci vede chiaro. Sente puzza di imbroglio. “Andò a parlare con mio padre e scoprì la verità. Mio padre chiese scusa per me. Io mi vergognai. Mi ero comportato davvero male. Per anni, non ebbi più rapporti con Enzo Ferrari. Ci riconciliammo molto tempo dopo, quando venne a Varano per preparare un Gran Premio di Monaco”. Dopo la Maserati, Giampaolo Dallara va a lavorare alla Lamborghini, dove inventa la celebre Miura. “Quindi andai con De Tomaso, perché mi faceva fare la Formula 1”. Il 21 giugno 1970 è un giorno che cambia, di nuovo, la sua vita: “A Zandvoort, durante il Gran Premio d’Olanda, muore Piers Courage, un pilota inglese, un ragazzo di 28 anni. Correva proprio per la De Tomaso. Lo vidi uscire di pista, vidi la sua macchina avvolta dalle fiamme. Ne rimasi molto scosso. E così tornai davvero al mio paese, a Varano. E nel garage di casa è nata la Dallara”.

La quale oggi lavora per Ferrari, Maserati, Lamborghini, General Motors, Bmw, Audi, Renault, Pagani, Bugatti. Sviluppo aerodinamico. Progettazione di telai e strutture in fibra di carbonio. Macchine da corsa che dominano a Indianapolis, Formule 2 e 3, e da quattro anni anche una Dallara Stradale, il sogno dell’ingegnere. “Insomma siamo in grande, bella e robusta espansione”. Ma non è per raccontare i successi di un’azienda che siamo venuti a Varano Melegari. Di aziende che hanno successo ce ne sono tante. Siamo venuti qui a cercare qualcuno che – nonostante tutto – ha ancora fiducia nell’Italia. “Qualche anno fa ho pensato: facciamo qualcosa come famiglia. Cominciamo a rendere qualcosa di quello che abbiamo ricevuto” (e segnatevi bene questa: cominciamo a rendere qualcosa di quello che abbiamo ricevuto. Se la segnino quelli convinti di essere sempre stati fregati, nella vita, e di essere sempre in credito). Dallara pensa di fare qualcosa e attenzione, ha detto “come famiglia”, perché l’azienda ha dei soci, e le risorse per fare quel qualcosa non devono uscire dall’azienda. Dallara ci mette di tasca sua. Nasce dunque la Dallara Academy, e con l’accademia nasce il Muner (Motorvehicle University of Emilia-Romagna), in collaborazione con le università di Parma, Modena-Reggio, Bologna e Ferrara. “In tutto abbiamo 190 ragazzi ai corsi. Ogni anno ne arrivano a Varano venticinque. I corsi sono in lingua inglese. La maggioranza degli studenti è italiana: ma il regolamento prevede che il venticinque per cento dei posti sia riservato a extracomunitari”.

E così a Varano de’ Melegari detto Varano Melegari, bassa val di Ceno, provincia di Parma, insomma un posto non proprio conosciutissimo, non proprio trendy, si formano gli ingegneri dell’auto del futuro. La fuga all’estero dei cervelli si blocca. “Anzi: quest’anno abbiamo assunto in azienda cinque giovani che erano andati a lavorare all’estero dai giganti dell’Automotive. Li stiamo riportando indietro, i cervelli”. E tutto è così contagioso che anche a Fornovo di Taro (chiamato in realtà Fornovo Taro perché qui in Emilia tolgono sempre il di e il de e pure il “nel”, visto che Reggio Emilia si chiamerebbe in realtà Reggio nell’Emilia), a Fornovo dicevamo, altro paesino di 5.902 abitanti lì vicino a Varano, la Dallara ha resuscitato un istituto tecnico che dieci anni fa stava chiudendo e che oggi ha 730 studenti con aule tecnologiche, multimediali e con laboratori. “L’abbiamo fatto per vincere la paura”, dice Andrea Pontremoli, l’amministratore delegato della Dallara, cinque figlie, tutte femmine (una è sindaca di Bardi, altro paesino della valle: è al secondo mandato e quando fu eletta per la prima volta era la più giovane d’Italia). “Tra poco festeggeremo i cinquant’anni della Dallara. Io e Giampaolo sappiamo che fra cinquant’anni non ci saremo più né lui né io: ma sappiamo anche che dobbiamo mettere le basi per i prossimi cinquant’anni. E così abbiamo puntato su un mix di innovazione e di amore per il territorio di cui siamo figli”. Dallara e Pontremoli hanno siglato un patto: per venticinque anni l’azienda non deve essere venduta e deve restare a Varano; deve reinvestire 1’80 per cento degli utili e, del restante 20 per cento, la metà deve andare alla Fondazione intitolata a Caterina Dallara, una figlia di Giampaolo morta troppo presto. Lo scopo: far crescere il territorio. Pontremoli: “L’Italia un paese finito? Un luogo comune, frutto di una narrazione sbagliata. Noi italiani proviamo un gusto sadico nel lamentarci e nell’autodenigrarci: ma la verità è che ci saltiamo sempre fuori. Prenda il momento attuale. Siamo qui a parlare di un paese allo sfascio. Ma l’anno scorso l’Italia è cresciuta di oltre il sei cento e quest’anno, con tutti i casini che abbiamo avuto, di oltre il tre. Di che parliamo? Nei miei sessantacinque anni di vita ho visto cinquantanove governi. Eppure, non mi pare che il paese sia mai fallito. “Non è vero neppure che la politica fa sempre schifo. Noi tutto quello che abbiamo fatto in azienda e nei progetti sui giovani lo abbiamo potuto fare attingendo a risorse pubbliche: che per giunta abbiamo potuto spendere con i tempi dei privati, molto più rapidi. E questo lo dobbiamo alla politica: alla Regione Emilia-Romagna, ai sindaci del territorio.

“L’Italia un paese arretrato? Abbiamo un sistema sanitario unico, abbiamo università e scuole che permettono di formarsi con costi imparagonabili. Negli Stati Uniti un corso come quello che facciamo noi qui a Varano costa dai 60 ai 70 mila dollari all’anno: da noi dai 2 ai 3 mila euro. Anche questa è Italia. Ma noi ci raccontiamo sempre un paese da cui si può solo scappare”. Adesso abbiamo votato. In campagna elettorale molti hanno descritto l’Italia come un paese allo stremo. “Certo che i problemi ci sono. Ma nei programmi dei partiti è mancato un modello sociale sul quale costruire l’Italia dei prossimi vent’anni. Tutti hanno proposto provvedimenti a pezzetti: l’Iva, l’Irap, la flat tax, le bollette e così via. Ma nessuno ha una visione d’insieme. Quando era presidente del Consiglio, Giuseppe Conte organizzò un incontro con gli imprenditori. Mi invitarono, ci andai volentieri. A un certo punto mi chiesero un parere sulle idee che avevano in mente e risposi: buone, ma è come se, quando progetti un’auto, pensi a ottime sospensioni, a uno sterzo eccellente, ai freni e motore, ma non pensi al disegno della macchina. In che macchina vuoi mettere quelle sospensioni, quello sterzo, quei freni, quel motore? In che modello sociale vuoi mettere quelle tasse, quei servizi, quei diritti civili?”. E intanto si litiga, come ormai da molto tempo siamo abituati, forse da quando il Cavaliere scese in campo e si era tutti o pro o contro, un bipolarismo della rissa. La politica contro. “Hai due modi di fare politica”, dice Pontremoli. “0 aggreghi su un sogno, o aggreghi su un nemico. Purtroppo da tanti anni ha vinto la seconda strategia, che è più facile”. Ci salveranno gli imprenditori? Ci salverà il genio italiano?

“Venga”, mi dice infine Giampaolo Dallara, “le voglio far provare la Dallara Stradale. La Barchetta, quella senza portiere e senza parabrezza. Si dovrebbe guidare con il casco, ma la provi senza, è una sensazione di libertà straordinaria”. E’ un’esperienza bellissima, ma che ho avuto il timore di non poter raccontare. Un missile. Un’auto da corsa con cui si può andare a fare un weekend. Era il sogno di un uomo che non ha mai rinunciato a sognare. Un uomo che ha costruito qualcosa e che non smette di pensare al futuro: sia pure quello degli altri. L’automobile è la sua vita: l’automobile e il suo territorio, la val di Ceno, con quelle stradine che ci portano su con la Dallara Stradale. Chi non ama la terra che gli è madre, sentirà sempre una mancanza. Arriva Pontremoli che interrompe un po’ la poesia: “Non investiamo sul territorio perché siamo buoni. Investiamo perché ci conviene. Nel mondo di oggi non puoi essere competitivo se non è competitivo il tuo territorio”. Ma Dallara, dei due, è il buono: “Dài Andrea, vedere le facce contente della nostra gente è impagabile”. Come il sapere che a Detroit, o nel Regno Unito, o in Giappone o in Corea, ci sono giovani ingegneri che vanno a insegnare come si fa un’automobile e, quando chiedono loro dove abbiano imparato, rispondono: a Varano Melegari, val di Ceno.

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Articolo pubblicato il 3 ottobre da Il Foglio

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