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SINTESI IN PRIMO PIANO – 25 gennaio 2020

In evidenza sui maggiori quotidiani:
– Regionali. Salvini: Se vinciamo li mandiamo a casa
– Gualtieri: il bonus reddito sarà strutturale
– Autostrade, i Benetton a caccia di partner
– Virus, i primi casi in Europa

PRIMO PIANO

Politica interna

Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Cremonesi Marco 
Titolo: Salvini alza il tiro sul governo Conte Il Pd: diffonde odio – Il centrodestra unito in piazza E Salvini avverte il premier
Tema: regionali

Il clima è euforico, la piazza del Popolo di Ravenna è irta di bandiere da cui spesso si alzano boati e ovazioni. II comizio finale della campagna elettorale per l’Emilia-Romagna, piaccia o non piaccia ai leader del centrodestra, segna una certezza: la coalizione è più forte dei suoi partiti. Salvini più Meloni più Berlusconi, insieme su un palco, suscitano un entusiasmo che nessuno di loro, da solo, riesce a suscitare. E nella piazza si vede il mai visto, militanti che sventolano bandiere di Fdl e della Lega insieme. Tocca a Matteo Salvini che tira le somme di quanto ha ripetuto fino a perdere la voce in circa 200 piazze dell’Emilia-Romagna: «Questa piazza è la risposta che porterò con me in tribunale per aver difeso il Paese». E dedica la serata a Mario Cattaneo, il ristoratore appena assolto in primo grado per avere ucciso un rapinatore: «Da lunedì ci sarà un assessorato alla Sicurezza anche qui. E una lotta alla droga senza se e senza ma, anche se qualcuno difende la privacy dei delinquenti». Il visibilio si scatena sulle battute finali: «Io mi impegno a essere qui costantemente anche dopo il voto. Buona battaglia e buona festa perché Lucia Borgonzoni le elezioni le stravince. E se vinciamo, lunedì per Conte, Zingaretti e Conte ci sarà un problema». Giorgia Meloni è carica e suscita le ovazioni della piazza da subito: «Non parlare di noi, Bonaccini… Parla di quello che hai fatto, non ti vergognare dei partiti che ti sostengono». Poi, inanella una serie di battute rivolgendosi alla maggioranza di governo: «Persino la tassa sulla fortuna siete riusciti a mettere… Ma quella dovrete pagarla voi, perché siete miracolati». Tocca a Silvio Berlusconi, più pacato: «Non c’è nessuna organizzazione umana in cui sia bene governare per 70 anni, gli imprenditori qui ci dicono che è impossibile lavorare se non si fa parte di un certo sistema». Il tono di voce più consente ai fischi dei manifestanti che gridano slogan antifascisti di far sentire nella piazza i loro fischi, c’è qualche momento di tensione con i militanti di centrodestra. Berlusconi continua: «Il risultato dell’Emilia-Romagna non potrà non avere conseguenze. Dovremo chiedere le dimissioni del governo delle quattro sinistre. Perché se volesse continuare, l’Italia non sarebbe nemmeno più una democrazia, ma una dittatura della minoranza».
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Testata:  Repubblica
Autore:  Ciriaco Tommaso 
Titolo: Il governo in ansia per Bologna – L’ansia di Conte e del Pd “Avanti comunque vada” Renzi pronto a smarcarsi
Tema: regionali

Una parola circola tra i renziani, in questa vigilia drammatica del voto in Emilia Romagna: «Martellamento». Dicono che Matteo Renzi abbia promesso proprio questa strategia, a urne chiuse. Dal 27 mattina e per i giorni a venire. Vuole «martellare» Giuseppe Conte, non si fermerà neanche in caso di vittoria in Emilia Romagna, figurarsi in caso di sconfitta. La ragione è semplice: vuole sostituirlo, chiederà di sostituirlo, proverà a sostituirlo. E ritiene che il passo indietro di Luigi Di Maio significhi soltanto una cosa: anche il leader di Pomigliano vuole «cambiare schema». Magari promuovendo Dario Franceschini, forse addirittura invitando tutti a un altro esecutivo di unità nazionale, con il coinvolgimento di Forza Italia. A Palazzo Chigi – e a dire il vero neanche nel Partito democratico – non sono per niente d’accordo. Osservano le mosse di Renzi, lo considerano votato alla destabilizzazione del quadro e non ne comprendono fino in fondo le ragioni. «Sono fiducioso», dice comunque il premier alla vigilia. Deve dirlo, naturalmente. Ma la partita si gioca sul filo e l’avvocato spera di cavarsela anche questa volta. Il decreto sul cuneo fiscale serviva proprio a rilanciare l’esecutivo, a tre giorni dalle regionali. E pure i fondi stanziati per le emergenze nella regione più rossa d’Italia (fino a prova contraria). L’ansia per domenica notte, comunque, si respira eccome. Tanta, tutta. Vigilia drammatica, si diceva. Nessuna esagerazione, perché una sconfitta in Emilia Romagna sarebbe come smarrirsi in casa propria. I sondaggi, che non si possono pubblicare, rendono umorale l’ultimo giorno di campagna elettorale: a leggerne qualcuno il Pd sorride, a leggerne altri piange. «Calma», predica Dario Franceschini chiamando mezzo governo. «Calma». Non è calmo per niente Stefano Bonaccini, che da tre mesi ripete a tutti, big nazionali e militanti semplici: «Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, abbiamo governato bene, ma per vincere servirà comunque un salto mortale». L’immagine ricorda la sfida a cui sarebbe chiamato anche Giuseppe Conte, se il risultato non fosse soddisfacente. Anzi, un triplo salto mortale. Primo: tenere a bada Renzi. Secondo: gestire Di Maio. Terzo: immaginare una soluzione che consenta al Pd di non perdere la faccia.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Gabanelli Milena – Ravizza Simona 
Titolo: Dataroom – Il derby emiliano tra benessere e paure
Tema: il voto emiliano

La Regione rossa per definizione esiste ancora? Ha un bel dire il premier Giuseppe Conte («il voto non decide il destino del governo na)zionale»), ma la sfida per l’Emilia Romagna tra Stefano Bonaccini (Pd) e Lucia Borgonzoni (Lega) è epocale, e fotografa una regione alla ricerca di una nuova identità. Il voto del 26 gennaio è il 39esimo nella sua storia. Da qui provengono un quarto degli iscritti nazionali al Partito e figure di spicco come Luciano Lama, Nilde Iotti e Pier Luigi Bersani. Il tasso di affluenza dell’Emilia-Romagna è sempre stato il più alto: fino alle Politiche del 1994, oltre il 90% degli aventi diritto si reca alle urne. Il dato, che poi costantemente si riduce, si mantiene comunque superiore a quello nazionale (oltre il 75%). Il primo tonfo arriva nelle Regionali 2010 per il terzo mandato di Vasco Errani: meno 300 mila voti (quasi 10 punti), un elettore su tre si astiene. Quelli che non votano diventano due su tre alle Regionali del 2014, al debutto di Stefano Bonaccini. E la reazione alla fine anticipata della legislatura con le dimissioni di Errani, condannato in primo grado per falso ideologico (poi assolto in Appello). Dal 1970, data di nascita delle Regioni, l’Emilia-Romagna è governata ininterrottamente dalla sinistra. Il crollo arriva con le Politiche del 2018: in Emilia sbanca il M5S con il 27,5% dei voti e il Pd retrocede al 26,3%. Alle Europee 2019 la Lega diventa il primo partito con il 33,7% dei consensi, il Pd secondo al 31,2%. Secondo l’istituto Carlo Cattaneo, prestigioso centro studi di Bologna, gli emiliano-romagnoli si avvicinano al voto regionale con un misto di nostalgia per un passato pieno di buoni valori e buona comunità, e un’ansia per il futuro percepita più carica di rischi che di opportunità. La doverosa aspirazione dei cittadini a migliorare passa anche dalla loro capacità di valutare l’esperienza, la competenza e i risultati prodotti dai candidati. Un’analisi indispensabile prima di mettere in mano a qualcuno le chiavi della propria Regione, Comune, Paese.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Macrì Carlo 
Titolo: Zingaretti: stop alla campagna d’odio
Tema: regionali

«Raccattare voti, come fa la destra, diffondendo odio e stupidaggini, cavalcando la rabbia e i problemi degli italiani è sbagliato». Il segretario dei dem Nicola Zingaretti ha chiuso la campagna elettorale per le Regionali a Reggio Calabria, soffermandosi sulle ultime manovre del governo che hanno portato nelle tasche degli italiani più soldi in busta paga. Nel lanciare la «rivoluzione» come metodo di svolta per la Calabria, manifesto elettorale di Pippo Callipo, il re del tonno, candidato civico, ma appoggiato dal Pd, Zingaretti ha posto l’accento sulla demagogia urlata da Salvini che «cavalca i problemi», anziché risolverli. Il segretario del Partito democratico ha concentrato il suo discorso su quella che ha definito una «ignobile campagna d’odio» messa in campo dal leader della Lega e ha portato come esempio la vergognosa scritta che è stata fatta su una porta di una famiglia di ebrei a Mondovì. «Spero che i calabresi capiscano il significato delle parole di Salvini e diano il giusto peso, rispedendole al mittente con una grande partecipazione al voto e con la vittoria delle elezioni». Il segretario dem è tomato poi sull’ipotesi della caduta del governo. «Nessuno deve sognarsi una crisi di governo per due regioni» che hanno problemi elettorali, ha detto Zingaretti: «Il governo vive sulla capacità di fare le cose» e «i risultati si vedono», anzi, il Pd «sarà ancora più esigente» con l’esecutivo. II segretario del Partito democratico ha poi caricato la platea sulla necessità di «scacciare chi viene in questa regione a fare la spesa con gli interessi della politica». E proprio il tema leghista che in queste ultime ore tiene caldo il clima della campagna elettorale in Calabria. Per la prima volta il Capitano ha messo in campo una propria squadra dove hanno trovato posto transfughi provenienti anche dalla sinistra. Molti sono quelli che un tempo agitavano le bandiere della sinistra e oggi si schierano nelle liste del leader leghista.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Bray Massimo 
Titolo: Il Pd ricominci ritrovando il senso dell’appartenenza
Tema: Pd

C’è bisogno di politica, identità e coraggio nelle stanze del Pd. E’ da tempo che leggo un ricco e generoso dibattito su come il Pd, per riconquistare il suo elettorato e intercettare l’interesse delle nuove generazioni, debba «aprire le sue porte alla società civile, alle esperienze di volontariato, alle molte virtuose pratiche di partecipazione e cittadinanza attiva». Apprezzando lo sforzo in atto, riterrei utile confrontarsi non solo sull’apertura delle porte, ma anche su cosa si dovrà fare all’interno delle stanze «dopo aver preso la decisione di aprirsi». Cominciando da cosa voglia dire «aprire»? Perché il problema è, ancora una volta, quello di dare peso alle parole. Paradossalmente nelle ultime legislature abbiamo assistito a una grande apertura: decine, se non centinaia di casi di trasformismo, di notabili che si sono spostati da un partito a un altro, sulla base della convenienza del momento e della difesa delle poltrone. I partiti si sono mostrati quindi molto aperti a difendere gli interessi di qualcuno in nome del primato del «vincere» a ogni costo, del «successo» personale, rischiando di far scomparire la propria identità, caricando chiunque a bordo. Una delle prime parole su cui soffermarsi è quindi «appartenenza»: in questi anni ha finito con il significare la difesa degli interessi dei partiti, della loro classe dirigente e non un modo di sentirsi parte di una comunità capace di condividere bisogni, le attese, le speranze e le paure dei cittadini. Un altro motivo che ha portato l’elettorato di centrosinistra a non votare, a non credere più nella politica, a non partecipare alla vita di partito, è dato dal fatto che la scelta dei rappresentanti sia stata fatta non sulle loro capacità e competenze, sul loro impegno politico e sociale, sul vivere la politica come missione al servizio dei cittadini, ma sulla creazione di rapporti «personali» odi cerchi magici. Ancora una volta un uso distorto della parola appartenenza. Procedendo in questo modo, il senso di comunità, il sentirsi parte di un mondo di idee e obiettivi, definiti insieme in una casa comune, ha finito con il non avere più valore.
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Testata:  Repubblica
Autore:  Mauro Ezio 

Titolo: L’editoriale – Non possiamo dirci innocenti
Tema: razzismo

Stiamo scendendo nell’abisso, senza sapere dove arriveremo, finoa quando cammineremo nel buio. Dobbiamo cominciare a domandarci dove porta e quando si fermerà questa mutazione in corso del nostro Paese, che dopo aver travolto il linguaggio e la coscienza civica sta attaccando lo spirito di convivenza fino ad alterare il carattere collettivo degli italiani, liberando forze sconosciute e inquietanti, in un’inversione morale della democrazia. Chi ignorava gli allarmi di questi ultimi anni, i richiami striscianti al fascismo, la ferocia del linguaggio, la brutalità della politica, e banalizzava ogni regressione azzerandone il significato, oggi si trova davanti un’immagine iconica dell’oscurità in cui stiamo precipitando. Una stella di David e la scritta “Juden hier” (qui abita un ebreo) tracciate sulla porta di casa a Mondovi di Lidia Beccarla Rolfi, deportata a Ravensbrück perché staffetta partigiana, e nel campo testimone dell’Olocausto. Guardiamo fino in fondo quel gesto. Qualcuno è uscito di casa nella notte come un ladro, con lo spray nero, con il proposito di imbrattare in anticipo il Giorno della Memoria, individuando come bersaglio una vittima del nazismo e scegliendo un rituale fascista, per replicarlo nel 2020, in un Paese democratico, nel cuore dell’Europa e in mezzo all’Occidente. Qualcuno tra i minimizzatori dirà adesso che si tratta di un gesto isolato: e ci mancherebbe altro. Ma la verità è che il contesto italiano rende plausibile quell’atto, certamente estremo e tuttavia non incoerente con il clima sociale, politico e culturale, di cui segna anzi il tracciato, spingendosi fino al confine. Si tratta dunque di leggere con attenzione i segni evidenti di questa trasformazione in corso. Il cittadino privato che s’incarica di regolare conti pubblici secondo lui rimasti in sospeso nella storia, agisce infatti nel momento in cui sente che sono saltati alcuni interdetti costruiti nel tempo dalla democrazia, dal costume occidentale, dalla civiltà giudaico-cristiana, dalla cultura giuridica. Avverte che si è rotta la storia, come patrimonio condiviso del Paese, come pedagogia della conoscenza e come istruzione per la libertà.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Verderami Francesco 
Titolo: Settegiorni – La solitudine di Romolo – Così il capo leghista (rimasto solo) cercherà di resistere
Tema: Lega

Eraono i Romolo e Remo della Terza Repubblica, e come leggenda vuole ne è rimasto uno solo. In questi giorni però Salvini ha ordinato al leghisti di non attaccare DI Maio e i 5 Stelle, semmai di colpire Grillo e di affondare il colpo contro il Pd, perché c’è un disegno da portare a compimento. Il disegno risale alla primavera di due anni fa, quando il Carroccio entrò a Palazzo Chigi insieme ai grillini con un duplice obiettivo politico. Il primo era drenare i voti che M5S aveva sottratto al centrodestra «in modo politicamente fraudolento», come disse l’allora ministro Fontana in un vertice di partito: «In realtà sono la quinta colonna del sistema ma la dimensione governativa li ridimensionera». Giorgetti, teorico del progetto, osservando le dinamiche del Movimento si era convinto che l’esperienza giallo-verde non sarebbe durata «perché loro sono come eravamo noi nel ’94», quando una Lega alle prime armi resistette appena sei mesi al governo. Ma il «contratto» era funzionale al secondo obiettivo di Salvini: puntare in prospettiva alla scissione dei grillini e con una costola dei 5S costruire una nuova coalizione, nella quale il «nuovo» alleato avrebbe sostituito il «vecchio», cioè Berlusconi. Incrociando alla Camera l’azzurro Giacomoni, che è uno dei consiglieri del Cavaliere, l’allora sottosegretario Molteni lo spiegò chiaramente: «Voi crollerete prima». In corso d’opera però Salvini fu chiamato a gestire il malumore dei suoi verso i 5S. «Dovrebbero darci un’onorificenza al merito della Repubblica», disse il viceministro Galli in una riunione: «In questo momento ci stiamo sacrificando perché il Paese possa rendersi conto che i grillini non sono capaci di governare». La resilienza venne ripagata con il voto alle Europee, quando il Carroccio aprì M5S come una scatoletta di tonno. Visto che ora c’è l’esecutivo giallorosso e non ci sono state le elezioni, è evidente che il piano si sia inceppato. E vero che «Remo» si è dimesso da capo dei grillini, ma il «nuovo bipolarismo» immaginato da «Romolo» è minacciato da una riforma della legge elettorale di stampo proporzionale, dalla consapevolezza che la legislatura durerà fino al termine e dall’avvento di altri competitori sulla scena. Due anni fa la Meloni non era considerata un problema da Salvini. Ora lo è, per la sua capacità di mostrarsi leale con l’alleato e di marcare al tempo stesso una differenza di postura e di linea che le sta facendo conquistare voti. Non a caso il capo del Carroccio tenta di frenarla.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Palmerini Lina 
Titolo: Politica 2.0 – I tre ostacoli di Salvini per l’assedio al Conte II
Tema: Lega

Può darsi che MatteoSalvini abbia ragione quando dice che lunedì «cambia l’aria» ma se davvero lui espugnerà l’Emilia-Romagna non è affatto detto che si spalancherà uno scenario di crisi. Ieri il capo leghista lo diceva in chiusura di campagna elettorale ed è una classica promessa che fa chi è all’opposizione: dare una centralità politica a un territorio prospettando un ribaltone a Roma dove invece tira proprio un’altra aria. Innanzitutto si vedrà cosa decideranno gli emiliani – e se invece per lui la corsa si trasformerà nella sua prima sconfitta – ma pure in caso di vittoria lui sa bene che non basterà per sbaraccare il Conte II. Non solo perché tutti i leader della maggioranza continuano a ripetere che «si va avanti» ma anche perché c’è già un cronologia che mette i freni ai suoi progetti. Tanto per citare alcuni passaggi più importanti, c’è la preparazione alla successione a Luigi Di Maio con gli stati generali dei 5 Stelle a marzo. Poi c’è una ricchissima tornata di nome nelle maggiori aziende pubbliche italiane quotate – da Eni a Leonardo a Enel da Poste a Terna – che da tempo sono nelle mire dei partiti. Infine, fatto non secondario, c’è il referendum sul taglio dei parlamentari che – secondo gli orientamenti del Governo emersi ieri – si dovrebbe svolgere ad aprile. Insomma, non basta una vittoria – sia pure storica – per rovesciare il tavolo di Roma A Salvini servirà molto di più. In primis dovrà vincere l’istinto di sopravvivenza di chi è al Governo ma pure di chi oggi è all’opposizione: di Forza Italia, per esempio, i cui parlamentari sanno bene che il rischio è di essere decimati non solo per i consensi ma pure per il referendum con il taglio a 600. E qui si inserisce la scelta dell’Esecutivo di accelerare per la convocazione della consultazione in aprile. Così la finestra della crisi si restringerebbe di molto perché, dopo il test popolare, se – come sembra scontato – passassero i “sì” alla riduzione, si dovrebbero ridisegnare i collegi o fare una nuova legge elettorale.
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Testata:  Giornale 
Autore:  Biloslavo Fausto 
Titolo: Le trame di Soros dietro alle sardine – Soros sposa le Sardine e i sindaci pro Ong: «Salvini è un dittatore»
Tema: sardine

Lo «squalo» finanziario, George Soros, ha dichiarato il suo appoggio e ammirazione per le Sardine al World Economic Forum a Davos, appuntamento annuale in Svizzera dei potenti economici del mondo. Lo speculatore nei panni di discusso filantropo ha preso la parola giovedì prendendo come esempio gli studenti di Hong Kong. Secondo Soros «questo torrente di ribellioni» in varie parti del pianeta «ha il sostegno schiacciante della popolazione». Tutto da vedere, ma il miliardario fra i 30 uomini più ricchi al mondo, sostiene di avere «tratto questa conclusione, quando ho saputo di un movimento spontaneo di giovani che si sono presentati alle manifestazioni organizzate da Matteo Salvini, l’aspirante dittatore italiano». Non è un refuso, ma ha detto veramente che il leader della Lega diventerà come Benito Mussolini. Il politico italiano è in buona compagnia: gli altri «dittatori» citati nel discorso sono il presidente americano, quello russo e cinese.
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Economia e finanza

Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Pogliotti Giorgio – Tucci Claudio 
Titolo: Ministeri, Regioni e scuola: aumenti top con il cuneo fiscale – Cuneo e Pa, aumenti top per ministeri e scuola
Tema: costo del lavoro

Da luglio per oltre 3,1 milioni di dipendenti pubblici l’operazione del taglio del cuneo fiscale produrrà un incremento del netto in busta paga che nel 2020 oscillerà da un picco massimo di 100 euro medi mensili per i ministeriali ad un picco minimo di 5,79 euro peri i dipendenti amministrativi del comparto università. L’operazione varata dal consiglio dei ministri di giovedì notte, secondo l’ultima versione della bozza del Dl in via di ultimazione, prevede un doppio canale introducendo dal 1° luglio peri redditi fino a 28mila euro un bonus da 600 euro per i sei mesi del 2020 che diventano 1.200 euro a partire dal 2021. Mentre sopra questa soglia e fino a 40mila euro di reddito è introdotta per i soli sei mesi del 2020 una detrazione fiscale equivalente (pari a 480 euro rimodulati) che decresce fino ad arrivare al valore di 80 euro per un reddito di 35mila euro lordi, per ridursi progressivamente fino ad azzerarsi a 40mila euro. La misura interessa direttamente non solo i lavoratori dipendenti del privato (in primis operaie impiegati), ma anche la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici con redditi annui fino a 4omila euro. Restano fuori in meno di 100mila persone nella Pa: magistratura, presidenza del consiglio, carriere diplomatiche e prefettizie, Authority, dirigenza.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Sensini Mario 
Titolo: Il bonus reddito sarà strutturale «Ad aprile la riforma dell’Irpef»
Tema: riforma fiscale

Varato il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 40 mila euro, che partirà da luglio, il governo rilancia la riforma generale dell’Irpef. «Andiamo avanti determinati per una più ampia riforma fiscale. Vogliamo continuare ad abbassare le tasse alle famiglie» dice il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, mentre il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, assicurando che il taglio del cuneo sarà strutturale, annuncia l’intenzione di presentare «un disegno di legge delega per la riforma fiscale entro aprile». La Lega attacca, con Matteo Salvini che parla di manovra elettorale di poca sostanza, «una rivoluzione da 46 euro a testa l’anno», Conte rintuzza, «sei stato ministro per 15 mesi, potevi pensarci tu», e alza l’asticella, forte dell’appoggio dei sindacati. «Vogliamo un sistema più semplice, più equo e che riduca la pressione fiscale a partire dai redditi medio bassi» spiega Gualtieri, secondo il quale nella riforma dell’Irpef dovrà essere salvaguardato il principio della progressività dell’imposta. Anche eventualmente inasprendo le tasse sui redditi molto alti, ad esempio oltre i 500 mila euro. Laura Castelli, vice ministro dell’Economia per il M5S, si spinge anche oltre, assicurando che «la riforma dell’Irpef dovrà contenere una riduzione del cuneo fiscale per i pensionati, esclusi dal bonus» che il governo ha appena rafforzato, ma anche, dice la Castelli, «una misura ad hoc per gli incapienti, forse attraverso un assegno, sicuramente la semplificazione delle detrazioni, e una riduzione delle aliquote e degli scaglioni dell’Irpef».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Tria Giovanni 
Titolo: Una riforma per un fisco trasparente – Serve usa riforma fiscale equa, trasparente e senza fare deficit
Tema: riforma fiscale

E’ impopolare, che si stia al governo o che si si stia all’opposizione, schierarsi contro un aumento di spesa mentre è popolare schierarsi contro le tasse, anche se si tratta evidentemente di due facce della stessa medaglia. Non è un caso che il governo Conte 2 sia stato accusato dall’attuale opposizione di essere solo il governo delle tasse, ma non di essere il governo della spesa pubblica. Ciò impedisce di affrontare con chiarezza il tema della riforma fiscale che implica questioni sia di tipo strutturale, cioè d icomposizione e organizzazione del prelievo fiscale, sia di tipo congiunturale, e cioè di spazio fiscale necessario ad attuarla senza aumenti di deficit. Da questo punto di vista, purtroppo, è difficile prevedere passi in avanti senza un qualche accordo o dialogo generale in Parlamento che superi i confini tra maggioranza e opposizione. La competizione tra forze politiche in continua ricomposizione, e con orizzonte incerto, impedisce la correzione della dinamica della spesa necessaria a creare spazio per ridurre la pressione fiscale, o non aumentarla, in una prospettiva di non aumento del debito. Tant’è che lo spazio che si era iniziato a creare nei conti pubblici non è stato sfruttato e consolidato e, al contrario, la situazione, dal punto di vista fiscale, si è ancor di più ingarbugliata con il ritorno alla politica dei bonus, tecnicamente distorsivi, e da cui è difficile poi tornare indietro.
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Testata:  Stampa 
Autore:  Possamai Paolo 
Titolo: Retroscena – I Benetton sono a caccia di partners – Dalle autostrade fino ad Autogrill e Adr La galassia Benetton cerca soci e fondi
Tema: Autostrade
I prossimi sei mesi saranno decisivi, per capire quale volto assumerà la presenza della famiglia veneta sul piano dell’economia. Decisiva la composizione del prossimo board di Edizione, in scadenza a giugno. Decisiva la strategia che gli azionisti assegneranno al prossimo amministratore delegato. Decisiva la conferma o meno dell’attuale presidente, Gianni Mion, grand commis alla corte di Ponzano Veneto dal 1986. Ma più a breve, determinante appare l’epilogo del braccio di ferro con il governo: se dovesse essere mantenuto l’impianto del decreto mille proroghe, entro fine febbraio Aspi di sicuro restituirà le concessioni e chiederà l’annesso miliardario indennizzo. Ovvio immaginare contenziosi senza fine, altrettanto scontato il default della società schiacciata dal peso di 10,5 miliardi di debito e dalla fisiologica richiesta di rimborso da parte dei sottoscrittori dei bond (tra questi anche Cdp e Bei con 2,2 miliardi garantiti da Atlantia). Se transiterà indenne attraverso Scilla (i bond holder) e Cariddi (M5S e il premier Conte), allora la nave prenderà rotte del tutto nuove. Finita la stagione dei Benetton dominanti in tutte le società di cui sono azionisti, subentra il tempo della ricerca di soci finanziari compagni di strada. Si comincia con Aspi, che è la madre di tutte le questioni. Da almeno un anno e mezzo pende l’ipotesi di un ingresso di Cdp nel capitale, più probabile appare che entri F2i per il suo profilo più operativo. Ma quel che conta è la dichiarata volontà di voltare pagina: ne sono segni il radicale cambio di management, il piano straordinario di manutenzioni e nuove infrastrutture per 7,5 miliardi, l’apertura del capitale e il maggior coinvolgimento di soci finanziari del calibro di Allianz e del fondo dello Stato cinese Silk Road.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  S.Car. 
Titolo: Lagarde e Mnuchin divisi a Davos sui costi legati al cambio del clima – Transizione energetica, Mnuchin e Lagarde divisi sulla strategia
Tema: Forum di Davos
Fuori, per le vie di Davos, Greta Thumberg in compagnia di altri giovani ambientalisti a marciare e a esternare tutto il disappunto perché i rappresentanti del business e della politica – che nei giorni scorsi l’hanno accolta come una protagonista del World Economic Forum – hanno ignorato il suo appello a smettere una volta per tutte di investire nei combustibili fossili. Dentro il centro congressi, il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin che rimbecca la presidente della Bce Christine Lagarde per il suo piano di introdurre anche nei modelli su cui si baseranno le strategie della banca centrale approfonditi studi sull’impatto anche finanziario a medio e lungo termine dei cambiamenti climatici. L’ultima giornata del Forum di Davos ha messo in luce il contrasto che non si placa tra chi ritiene priorità assoluta la lotta al climate change, chi lo ritiene un elemento ormai impossibile da trascurare sul piano delle politiche economico-finanziarie e delle strategie aziendali e chi pensa invece ci siano altri problemi più importanti e ben più urgenti. Se Lagarde ha parlato della necessità di arrivare a prezzare i costi della transizione energetica anche per sollecitare le aziende a muoversi più in fretta in questa direzione, Mnuchin ha detto che non siamo in grado di misurare costi e rischi legati ai cambiamenti climatici, se non altro per via dei tempi lunghi e dell’impossibilità di prevedere il passo e la portata dei cambiamenti tecnologici.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Mastrobuoni Tonia 
Titolo: Davos delude Greta “Le nostre richieste del tutto ignorate”
Tema: Forum di Davos

Ancora una volta, a dettare l’agenda della giornata dei ricchi e dei potenti di Davos, è stata Greta. In chiusura del Forum economico ha sfilato sulla Promenade, di solito intasata da minivan di lusso e limousine dai vetri oscurati, accompagnata da attivisti venuti da ogni angolo del mondo: Bali, Zambia, Puerto Rico. E nonostante il tema dei cambiamenti climatici sia stato l’ossessivo filo rosso della cinquantesima edizione del Forum, Greta ha ribadito la sua delusione già espressa nei giorni scorsi: «Le nostre richieste sono state totalmente ignorate». La cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha già ammesso che l’attivismo dei Fridays for Future ha dato una spinta notevole alla svolta verde del suo governo – la Germania è il primo Paese che rinuncerà al carbone entro il 2038 – ha anche detto a Davos che tra una generazione «impaziente» e i negazionisti deve esserci «dialogo». E, al netto di un botta e risposta durante il Forum, qualcuno comincia a vedere qualche segnale di cedimento nel presidente americano Donald Trump. Venerdì il segretario al Tesoro Steve Mnuchin l’aveva trattata con il consueto bullismo dell’attuale Amministrazione americana. «Chi è, la capo economista? Sono confuso», aveva commentato con sarcasmo, definendo le dichiarazioni di Thunberg «una barzelletta» e aggiungendo che «potrà tornare a spiegarci queste cose quando avrà studiato economia». L’attivista diciassettenne svedese non si è scomposta. Gli ha replicato che non serve una laurea in economia per capire i cambiamenti climatici e lo ha quasi ringraziato: «se fossimo cauti non potremmo fare quello che facciamo. Dobbiamo stare sotto i riflettori». E a chi le chiedeva che effetto le facessero le parole di Trump, Greta ha detto «nessuno». Ma qualche scricchiolio si comincia a percepire anche alla Casa Bianca. Proprio a Davos, qualcuno ha chiesto al presidente americano se riteneva ancora che i cambiamenti climatici siano una bufala. «No», ha risposto.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Carrer Stefano 
Titolo: Commercio globale, l’Europa crea una Wto parallela e arruola Pechino – Un tribunale parallelo alla Wto, l’Europa sfida gli Usa con la Cina
Tema: Forum di Davos
Con la Cina, senza gli Stati Uniti: l’Unione Europea promuove una aggregazione in sede Wto (World Trade Organization) di 17 membri disposti a costituire un meccanismo temporaneo di risoluzione delle loro controversie, dopo che l’Appellate Body dell’Organizzazione mondiale del commercio ha smesso di funzionare il mese scorso in seguito al ripetuto blocco della nomina di nuovi giudici decisa dal’Amministrazione Trump. Un ostruzionismo che dura da due anni, tanto che a dicembre, con la scadenza del mandato di due giudici, ne resta in carica solo uno. «Noi, i ministri di…»: inizia così la lettera firmata per conto di 17 nazioni a margine del World Economic Forum di Davos : in attesa che la situazione di stallo si sblocchi, le parti daranno vita a uno strumento di giudizio arbitrale ad interim «aperto a tutti i membri che volessero aderire». Oltre alla Cina, gli altri aderenti sono Australia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Corea del Sud, Messico, Nuova Zelanda, Panama, Singapore, Svizzera, Uruguay, più Norvegia e Canada che avevano già raggiunto una intesa in proposito con Bruxelles. «Crediamo che un meccanismo della Wto di risoluzione delle controversie sia della massima importanza per un sistema commerciale basato su regole, e che un organismo indipendente e imparziale di appello debba continuare a essere una delle sue caratteristiche essenziali», sottolineano i firmatari, che comunque, per non dare l’impressione di una spaccatura netta in seno all’organizzazione, ribadiscono di voler lavorare con l’intera Wto per un «miglioramento duraturo» dell’Appellate Body. La lettera si chiude inoltre con un riferimento al fatto che si prende nota delle recenti dichiarazioni di Donald Trump di impegno per la riforma della Wto.
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Bricco Paolo 
Titolo: Ex Ilva, un debito di 2,2 miliardi da gestire – Ex Ilva, i debiti per 2,2 miliardi nella trattativa per il salvataggio
Tema: ex Ilva

Nella complessa risoluzione del rebus Ilva-Aminvestco, sotto il tavolo dei negoziati non c’è soltanto la mina della occupazione, con i 3mila addetti che Arcelor Mittal vuole fuori dal perimetro e di cui il Governo chiede il riassorbimento. L’altra mina – sottaciuta, più ambigua e sfuggente per quanto rappresentata da numeri precisi e con tutta una serie di inneschi multipli – è la gestione del debito. Il debito che delimita il campo di gioco supera i 2,2 miliardi di euro. Il valore del credito di Intesa-Sanpaolo è di poco superiore al miliardo di euro. Quello di Unicredit è di 300 milioni. Quello di Bpm è di poco meno di 250 milioni. A queste somme vanno aggiunti i 300 milioni di euro erogati direttamente dal Mef e i 330 milioni della Cassa Depositi e Prestiti. La tensione fra i banchieri costituisce il contesto psicologico in cui Enrico Laghi, chiamato a gestire questo specifico dossier finanziario, e il capo negoziatore del Governo Francesco Caio stanno provando a impostare una non semplice soluzione: un puzzle che non si potrà che comporre, pazientemente, poco alla volta. La prima criticità è rappresentata dalla particolare gerarchia delle garanzie. La seconda complessità è la richiesta di considerare la conversione di una parte dei crediti in capitale. «In questa vicenda ci sono poche certezze e molto incognite – nota un banchiere – per questo bisogna fissare dei punti fermi. Il primo punto fermo è che, nella gerarchia delle tutele, il credito supersenior è rappresentato dai 300 milioni di euro erogati dal Mef. Se ci saranno dei soldi, al di là di qualunque ipotesi di salvataggio, andranno prima di tutto a ripagare quelli. Poi, a scalare, subito sotto si trovano i crediti caratterizzati sia dalla prededucibilità sia dalla garanzia dello Stato: sono 400 milioni di euro, 330 milioni della Cdp e il resto, poca roba, degli istituti di credito. A scendere, tutti gli altri. La controllante Arcelor Mittal è un grande gruppo quotato. Ma questa gerarchia esiste. E’ inutile girarci intorno».
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Societa’, istituzioni, esteri

Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Cerati Francesca 
Titolo: Pechino vieta la vendita di pacchetti turistici I primi due casi in Francia
Tema: virus
La Cina ha intensificato le misure per contenere il virus, che ha ucciso 26 persone e ne ha infettate oltre 800, sospendendo il trasporto pubblico in almeno 11 città dell’Hubei, tra cui Wuhan (11 milioni di abitanti) e Huanggang (7 milioni), che coprono una popolazione totale di oltre 3o milioni di persone. L’inizio del Capodanno lunare di questa settimana sta portando a una delle più grandi migrazioni e ha già aumentato enormemente il rischio di trasmissione in tutta la Cina e all’estero. Per questo, Pechino ha ordinato alle agenzie di viaggio di interrompere la vendita di tour interni e internazionali, riporta Bloomberg citando un documento del ministero della Cultura del Turismo. Un giro d’affari, quello del turismo all’estero, che ha toccato nel 2018 i 130 miliardi di dollari. I Paesi confinanti e le mete turistiche preferite dalla popolazione cinese nell’area sono le zone più a rischio, come evidenziato dai casi già segnalati in Giappone (2), Corea del Sud (2), Thailandia (5), Singapore e Taiwan (entrambi 3 casi), ma ci sono anche 4 casi a Hong Kong, 2 negli Stati Uniti (con circa 60 persone sotto osservazione) e uno in Nepal. E ieri è arrivata la conferma di 2 casi in Francia, i primi in Europa. A Wuhan, epicentro dell’epidemia, sono stati designati 7 ospedali per il rilevamento e il trattamento del virus ed è in corso la costruzione atempo di record di un nuovo ospedale, con una capacità di mille posti letto su una superficie di 25mila metri quadrati. Sarà operativo dal 3 febbraio, riproducendolo stesso modello adottatoda Pechino per la cura della Sars.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Santevecchi Guido 
Titolo: Pechino tra verità e reticenze – Il potere cinese tra verità e reticenze
Tema: virus

La comunità internazionale ha chiesto trasparenza a Pechino di fronte all’emergenza sanitaria, al coronavirus che ci allarma. E nella comunicazione verso il mondo esterno si è visto un nuovo atteggiamento. I ricercatori cinesi hanno subito pubblicato e messo a disposizione della scienza globalizzata il genoma del virus, da loro identificato con discreta rapidità. Erano passati mesi di silenzio colpevole nel 2002, ai tempi della Sars. Ma c’è anche la solita reticenza nell’informare la popolazione cinese. E si somma il dubbio che la burocrazia del Partito-Stato sia inadeguata alle ambizioni di una nascente superpotenza politica, al «sogno cinese» di Xi Jinping. E’ il calendario di questa crisi che spiega il sospetto. Ora sappiamo che il primo paziente con sintomi collegati al virus polmonare a Wuhan è arrivato in ospedale l’8 dicembre. Un nuovo virus naturalmente va scoperto. Ma si è cominciato a parlare di «malattia misteriosa», con causa sconosciuta. E andata avanti così fino all’11 gennaio. Poi l’allargarsi dei contagi ha imposto un’accelerazione. E stato decifrato il genoma del virus a forma di corona, pubblicato sul web, sono cominciati i contatti tra Pechino e l’Organizzazione mondiale della sanità. Molto confortante. Però, ancora sabato scorso, il 18, le autorità sanitarie cinesi insistevano a dire che i contagiati erano solo una cinquantina. Ci sono voluti due pronunciamenti dall’estero per richiamare alla realtà. E’ un pessimo Anno del Topo che si prospetta per il presidente della Repubblica, nonché segretario generale del Partito e capo della Commissione militare centrale. In pratica un uomo solo al comando. Resta a suo merito il fatto che Xi ha parlato del virus chiedendo una battaglia per arrestarlo, non ha taciuto come i suoi predecessori ai tempi della Sars. Allora, nel 2002, la leadership cinese era collettiva e debole, la burocrazia si dimostrò inadeguata all’inizio dell’epidemia. Ora c’è un presidente a vita, un uomo forte. Perché allora la burocrazia si è dimostrata altrettanto lenta allo scoppio del coronavirus? Un problema di sistema piuttosto che di capi supremi. Un virus nel potere cinese. Una falla nella seconda economia del mondo che resterà anche quando il virus sarà debellato.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Salom Paolo 
Titolo: Intervista a Renzo Cavalieri – «Rallenterà l’economia, ma non durerà»
Tema: virus

«Sul breve periodo — dice Renzo Cavalieri, docente di diritto dell’Asia Orientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia — è lecito aspettarsi un rallentamento negli scambi, nella mobilità delle persone: era successo così ai tempi della Sars. Ma non c’è stato allora né immagino ci sarà in futuro un blocco totale». Eppure le città «sigillate» sono sempre dl più… «Vero. Ma non riesco a figurarmi il blocco totale di un Paese-continente di un miliardo e 40o milioni di cittadini. Siamo di fronte ad un virus che ha innescato paura ma che o si evolverà rapidamente in qualcosa di incontrollabile (difficile, considerata l’opera delle autorità), oppure dobbiamo attenderci un picco e poi il ritorno alla normalità». L’isolamento a termine porterà benefici per l’economia europea e italiana? «Le aziende manifatturiere, in diretta competizione con quelle cinesi, potranno beneficiare di maggiori ordini. Ma l’isolamento della Cina, il rallentamento della sua economia, sarebbero comunque negativi sul sistema globale e danneggerebbero tutti».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Pelosi Gerardo 
Titolo: Mattarella a Pence: in Libia serve il peso politico Usa – Libia, Mattarella chiede agli Stati Uniti di far sentire il proprio peso politico
Tema: dialogo interatlantico
Una positiva soluzione della guerre dei dazi tra Europa e Stati Uniti aiuterà a rinsaldare anche il dialogo politico Transatlantico. Questo il concetto di fondo espresso dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella al vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence in visita ieri a Roma dove ha incontrato in mattinata Papa Francesco e in pomeriggio il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Una serie di incontri tra le due sponde del Tevere che hanno avuto al centro gli stessi argomenti dell’attualità internazionale: dalla stabilità del Mediterraneo alla crisi libica, dalla situazione in Iran e Iraq alle guerre commerciali con Cina e Unione europea. Su quest’ultimo tema sia Mattarella che Conte si sono detti fiduciosi che l’amministrazione americana riuscirà a trovare presto con Bruxelles un accordo sui dazi che eviti pericolose ritorsioni anche contro il nostro Paese (che peraltro non ha partecipato al consorzio Airbus dal quale sono originati i dazi) che colpirebbero soprattutto i vini destinati alle esportazioni. Il dialogo transatlantico – ha spiegato Mattarella a Pence – è fatto da una comunità di valori politici condivisi ma anche di una comune visione dell’economia di mercato e delle regole multilaterali del commercio mondiale. Risolvere questi problemi rafforzerà anche il dialogo politico tra le due sponde dell’Atlantico. Occorre pertanto, ha detto Mattarella evitare «il rischio» di un indebolimento dell’Alleanza per questioni commerciali. Pence ha preso buona nota di queste osservazioni (ribadite poi anche da Conte) e ha tenuto a ricordare che sia con il Messico che con la Cina gli Stati Uniti stanno procedendo sulla strada di accordi equilibrati che possano evitare guerre commerciali che nessuno vuole.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Colarusso Gabriella – Rodari Paolo 
Titolo: Pence ringrazia Mattarella “Legami Italia-Usa mai così forti”
Tema: dialogo interatlantico

Molte politiche ambientali, sociali ed economiche separano Trump dal magistero di Bergoglio. Ma la pragmaticità della diplomazia vaticana porta il Papa a intavolare temi di ampio respiro, in particolare i problemi legati alla crisi umanitaria in Venezuela e alla tutela delle minaranze religiose in Medio Oriente. Tanto che alla fine del colloquio il dono del Papa a Pence è il suo Messaggio per la pace. Nei mesi scorsi il Vaticano aveva provato ad accreditare Teheran come interlocutore affidabile sull’asse Medio Oriente Asia. La crisi con Washington ha lasciato la Santa Sede nell’angolo. Bergoglio, tuttavia, continua a cercare strade di dialogo nonostante l’interventismo di Trump non sia gradito. Al Quirinale, poco dopo, Pence incontra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e lo ringrazia per i rapporti «mai così forti» tra i due Paesi. Sul tavolo soprattutto il dossier Libia, dal quale gli Stati Uniti finora si sono tenuti distanti, dopo quella che era sembrata un’iniziale apertura di Trump nei confronti del generale Khalifa Haftar, l’uomo che dal 4 aprile 2019 sta cercando di rovesciare militarmente il governo di Tripoli. Il capo dello Stato ribadisce l’«importanza primaria» che riveste la questione Libia per l’Italia, non solo per gli interessi energetici e di sicurezza ma anche perché «uno stato permanente di guerra può portare alla destabilizzazione dell’intera area del Maghreb». Mattarella parla anche di dazi, sottolineando come anche i conflitti commerciali rischino di indebolire l’alleanza atlantica. Di Libia e dazi, nell’incontro a palazzo Chigi durato 45 minuti, Pence parla anche con il premier Giuseppe Conte. La conferenza di Berlino ha lasciato sul campo buone intenzioni da parte della comunità internazionale ma nessun risultato concreto. La moral suasion Usa soprattutto sul riottoso generale Haftar, sostenuto da Emirati, Egitto e Russia, potrebbe essere determinante per arrivare a un cessate il fuoco che consenta quantomeno la ripresa di negoziati. Ma da Pence, oltre al sostegno per la “road map” tracciata da Berlino, non sarebbero arrivati particolari, ulteriori impegni.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  m.ans. 
Titolo: I colloqui con Merkel su Libia e profughi “Non lasceremo soli Serraj e i suoi soldati”
Tema: Libia

Il generale Haftar è inaffidabile e non vuole il cessate il fuoco. In Libia mandiamo soldati solo per addestramento. E all’Europa chiediamo più soldi per gestire i profughi siriani in Turchia. Così Recep Tayyip Erdogan, mostrandosi in gran forma con quello che in Europa è il suo più solido alleato, la cancelliera tedesca Angela Merkel, ha parlato a tutto campo, dal Nord Africa alla Siria passando per il Mediterraneo e l’Unione Europea durante la visita della leader tedesca a Istanbul. Usando come immagine un quadro a tinte fosche: «Se non si raggiungerà la pace il più presto possibile, il caos in Libia colpirà tutto il Mediterraneo». Due ore di faccia a faccia a Istanbul. Sullo sfondo, l’inaugurazione della nuova Università turco tedesca. Il Sultano e la Signora dell’Europa hanno affrontato una serie di questioni esprimendosi in termini che non su tutto incontreranno il plauso degli altri alleati occidentali. «In Libia non lasceremo solo il premier Fayez al Serraj – ha esordito Erdogan – e per questo mandiamo i nostri militari, con il solo compito di addestrare l’esercito di Tripoli. Non sappiamo cosa farà domani Haftar».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  … 
Titolo: La giornata – Proteste in tutta la Francia Varata la riforma delle pensioni
Tema: previdenza in Francia

Oltre 100mila persone sono scese in piazza ieri in tutta la Francia, esclusa Parigi, per l’ennesima giornata di protesta contro la riforma delle pensioni. Nella capitale un primo conteggio dei sindacati ha parlato di oltre 300mila persone. Nella cinquantunesima giornata di sciopero a oltranza per bloccare la riforma voluta da Emmanuel Macron, il consiglio dei ministri ha varato i due progetti di legge che prevedono l’introduzione di un “sistema universale” a punti, che rimpiazzi i 42 regimi previdenziali esistenti. La palla passa ora all’Assemblea Nazionale, che esaminerà il testo dal 17 febbraio. Le trattative con le parti sociali proseguono sui punti chiave quali lavori usuranti e pensione minima. La contestata «età d’equilibrio» resta iscritta nel progetto anche se l’esecutivo ha rinunciato ad applicarla dal 2022, come ha riferito ieri la ministra responsabile per la Solidarietà e la Salute, Agnès Buzyn.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Montefiori Stefano 
Titolo: Il corsivo del giorno – Riforma delle pensioni: Macron va avanti, ma la strada è lunga
Tema: previdenza in Francia

La giornata di ieri è stata una tappa importante ma il percorso della riforma —e della protesta — è ancora molto lungo. Martedì 28 gennaio comincerà i suoi lavori una commissione all’Assemblea nazionale, il 30 gennaio si aprirà una conferenza alla quale parteciperanno anche i sindacati, e il 17 febbraio avrà inizio il dibattito parlamentare. La riforma delle pensioni resterà il tema di fondo delle elezioni municipali di metà marzo fino a un’approvazione definitiva che, nella migliore delle ipotesi, è prevista entro giugno. Il primo sciopero generale è stato proclamato il 5 dicembre scorso, ieri si è celebrato il settimo e un altro è già indetto per il 29 gennaio. Dopo sette settimane di conflitto sociale e di scioperi, arrivati dopo già un anno di rivolta dei gilet gialli, cambieranno probabilmente le modalità della protesta: minore partecipazione e più azioni spettacolari, come la tetra fiaccolata di giovedì sera a Parigi, con il corteo che avanzava esibendo la testa in cartapesta di Macron infilzata da un palo. «Oggi si è diffusa l’idea colpevole che la Francia non sarebbe più una democrazia ma una specie di dittatura — ha detto il presidente sull’aereo di ritorno da Israele —. Ma andateci in una dittatura, e vedrete!».
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Franceschini Enrico 
Titolo: Brexit, il divorzio E Boris ordina casse di prosecco
Tema: Brexit

La firma è come quella che si appone ai documenti per il divorzio: uno svolazzo su un pezzo di carta e addio. Ieri però ce ne sono volute tre, quelle dei presidenti della Commissione europea e del Consiglio europeo, Ursula von der Leyen e Charles Michel, a Bruxelles; più tardi un’altra di Boris Johnson, a Londra. Quattro, se si conta pure il sigillo della regina Elisabetta, apposto tre giorni fa. Affinché la separazione diventi realtà manca solo un ultimo atto: l’approvazione dell’accordo di uscita del Regno Unito dalla Ue ad opera del Parlamento europeo, prevista per mercoledì prossimo, dopo che ha detto definitivamente di sì il Parlamento britannico. È scontato che i deputati di Strasburgo faranno altrettanto. Così, tra una settimana esatta, sabato prossimo, primo febbraio, le isole britanniche saranno fuori dall’Europa unita di cui hanno fatto parte per 46 anni. Tutto è pronto per lo storico evento: a Downing Street hanno recapitato casse di prosecco, rigorosamente made in Britain, per brindare la sera del 31 gennaio, la scadenza concordata. Il “divorzio” entrerà in vigore alle 23 di Londra, la mezzanotte a Bruxelles. Non suonerà a festa la campana del Big Ben, come qualcuno voleva, ma sul portone con il numero 10, casa e bottega del premier britannico, sarà proiettato un grande orologio luminoso che scandirà il conto alla rovescia. Poco prima Johnson rivolgerà un appello al paese dalla tv. Il tono lo ha già anticipato: «Abbiamo superato il traguardo della Brexit, ora possiamo lasciarci alle spalle le divisioni e i rancori degli ultimi tre anni, per costruire insieme un brillante futuro». Adesso vorrebbe unire il Paese che ha contribuito a dividere.
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IL SOLE 24 ORE
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CORRIERE DELLA SERA
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LA REPUBBLICA
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LA STAMPA
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IL MESSAGGERO
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IL GIORNALE
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LIBERO QUOTIDIANO
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IL FATTO QUOTIDIANO
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