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SINTESI IN PRIMO PIANO – 16 maggio 2021

In evidenza sui principali quotidiani:
– Ultimatum Pd a Salvini
– Vaccini, il crollo dei contagi
– Recovery plan, spinta alla produttività (+0,6%)
– Raid israeliano a Gaza: colpita la torre dei media. Razzo uccide a Tel Aviv
– Sonda di Pechino su Marte

PRIMO PIANO

Politica interna

Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Voltattorni Claudia 
Titolo: Vaccini, il crollo dei contagi – Nell’Italia dei vaccinati i contagi calano dell’80%
Tema: vaccinazioni

Trentacinque giorni dopo la prima dose di vaccino, il rischio decesso per Covid-19 cala del 95%, il rischio di ricovero del 90%, quello di contrarre l’infezione dell’80%. Era il 27 dicembre 2020, quando l’infermiera dello Spallanzani di Roma, la 29enne Claudia Alivernini, riceveva, la prima dose in Italia di vaccino anti Covid-19 di Pfizer-BioNTech. Quasi cinque mesi dopo e oltre 26,8 milioni di dosi somministrate, l’Istituto superiore di sanità pubblica con il ministero della Salute, e in collaborazione con i referenti regionali della sorveglianza integrata Covid-19 e dell’anagrafe nazionale dei vaccini, il primo studio nazionale sull’impatto della vaccinazione anti Covid-19 da cui emerge l’efficacia altissima del preparato già a due settimane dalla prima inoculazione, efficacia che cresce fino all’849% contro il rischio di contrarre l’infezione già a 35 giorni e prima della seconda dose. «Si confermano l’efficacia delle vaccinazioni e della campagna vacci nale — dice il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro — e la necessità di raggiungere presto le coperture in tutta la popolazione per uscire dall’emergenza grazie a questo strumento fondamentale». Lo studio raccoglie i dati dal 27 dicembre 2020 (giorno di avvio della campagna vaccinale in Italia) al 3 maggio 2021, su 13,7 milioni di persone vaccinate con i quatto preparati autorizzati: PfizerBioNTech (dal 27 dicembre); Moderna (dal 14 gennaio); AstraZeneca (dal 10 febbraio); Johnson&Johnson (dal 22 aprile). Non viene specificata però l’efficacia di ogni singolo vaccino, «poiché sono stati introdotti in fasi successive e somministrati a popolazioni con diverso profilo di rischio: è necessario attendere un tempo di follow-up più lungo per poter ottenere risultati più solidi e confrontabili». Si sa però che il 95% dei vaccinati dello studio che ha ricevuto il preparato di Pfizer o Moderna ha completato il ciclo vaccinale nei tempi indicati dal calendario vaccinale. Lo studio dell’Iss e del ministero della Salute cita altri studi sull’efficacia dei vaccini effettuati in Gran Bretagna e in Israele da cui è emerso che già a partire dalla terza settimana dalla prima dose del vaccino Pfizer si ha un’efficacia preventiva contro l’infezione.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  De Bac Margherita 
Titolo: Intervista a Franco Locatelli – «Così si riparte» – «Buoni i risultati Siamo ripartiti e non ci sono segnali di allerta»
Tema: vaccinazioni

«Riaperture oculate e vaccinazioni». Sono le due mosse che ci stanno permettendo di uscire dalla crisi, secondo Franco Locatelli, oncoematologo, coordinatore del Cts. A tre settimane dalle riaperture del 26 aprile si può dire che l’Italia ha retto bene? «Sì, l’analisi dei dati indica che le aperture decise secondo il criterio del “rischio ragionato” non si sono associale a una ripresa della curva epidemica. L’ultima analisi settimanale indica un Rt inferiore a quello della settimana prima (o,86 contro 0,89) e l’incidenza cumulativa di casi ogni ioo.000 abitanti è scesa a un valore nazionale di 96». Tre regioni — Friuli-Venezia Giulia, Molise e Sardegna — sono sotto la soglia dei 50 casi, un traguardo importante? «Sì perché permette di poter avere una gestione basata sull’identificazione dei casi e sul tracciamento dei loro contatti. Anche la pressione sui servizi sanitari territoriali si è ridotta. Il resto lo hanno fatto le vaccinazioni che procedono speditamente». Avremmo già dovuto intravvedere segnali negativi? «Sicuramente sì. L’analisi della prossima settimana ci darà un quadro ancora più compiutamente definito, ma, non avere, al momento, segnali di allerta è incoraggiante anche nella prospettiva di nuove misure di apertura, quali per esempio il prolungamento del coprifuoco, che il governo si accinge ad adottare. Resta fondamentale il principio ispiratore della gradualità e progressività ricordato anche recentemente dal presidente Draghi».
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Di Caro Paola 
Titolo: Dal coprifuoco ai ristoranti, pressing per riaprire prima Speranza: serve prudenza
Tema: riaperture

Alla vigilia della riunione della cabina di regia che dovrà fare il punto sulla situazione sull’emergenza Covid e le misure in cantiere, si fa sempre più forte la spinta del fronte aperturista per arrivare alla ripresa completa di tutte le attività e all’abolizione del coprifuoco già nei prossimi giorni. In prima linea, nella maggioranza, c’è sempre Matteo Salvini. Che ieri ha riunito lo stato maggiore del suo partito, ministri compresi, e sulla base «di dati sanitari confortanti» ha chiesto «a nome di migliaia di sindaci e di tutte le Regioni, il ritorno al lavoro, alla libertà e alla vita». Tradotto, significa che la Lega vuole in tempi più rapidi di quelli previsti «la riapertura di bar e ristoranti al chiuso almeno al 50%, un programma di cancellazione del coprifuoco da qui ai prossimi giorni e via libera a palestre e piscine al chiuso». È poi il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, a nome del suo settore, a fissare sostanzialmente una data: quella del 2 giugno, festa della Repubblica con la quale celebrare la fine di una misura che «vale per l’emergenza, non per un periodo sereno, con un’Italia in giallo. Io credo che il coprifuoco abbia di fatto i giorni contati». Sulla stessa linea si muove anche Forza Italia, che con i capigruppo Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. Si va verso un graduale allentamento. Non un’abolizione immediata del coprifuoco ma, una sua riduzione, almeno alle 23. Lo conferma, sulla base dei suoi contatti con il governo, il presidente dell’Anci Antonio Decaro, sindaco di Bari, secondo il quale «non si può arrivare col coprifuoco all’estate, ma serve un graduale allentamento. I dati stanno migliorando e ci aspettiamo .che, con ancora un po’ di pazienza di due-tre settimane, si possa ripartire davvero». D’altronde, è lo stesso ministro della Salute Roberto Speranza — leader del fronte dei rigoristi sulle misure anti virus — a rivendicare che, se si andrà presto come sembra a un ritorno alla semi-normalità, è perché «siamo stati attenti e prudenti».
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Pucciarelli Matteo 
Titolo: Ultimatum Pd a Salvini – L’ira di Letta su Salvini “Riforme o esca dal governo”
Tema: tensioni nella maggioranza
 «Se Matteo Salvini non vuol fare le riforme, allora ne tiri le conseguenze ed esca dal governo», dice Enrico Letta. «Le riforme — intima — non si possono eludere». Il segretario del Pd parla all’assemblea nazionale di Articolo 1-Mdp (Leu), in collegamento c’è anche Giuseppe Conte, è una prima tappa di costruzione della futura coalizione progressista con 5 Stelle e sinistra che sfiderà il centrodestra una volta terminata l’esperienza del governo Draghi. Ma, archiviate le immagini del timido applauso di Letta a Salvini alla manifestazione di solidarietà con Israele dei giorni scorsi, tra i due il livello di scontro rimane alto; in questo senso il registro impresso dal segretario dem da quando ha assunto la carica ha una sua coerenza, ovvero tentare di qualificare la propria azione politica marcando la distanza dalla destra. Peraltro è lo stesso schema, seppur ribaltato, di Salvini. Il capo del Carroccio si sch ioda dall’approccio dello sparigliatore che gli è necessario per non perdere terreno alla propria destra a favore di Fratelli d’Italia. Quindi eccolo in piazza Duomo a Milano a manifestare contro il ddl Zan, altro campo di battaglia ad alto tasso simbolico, e rieccolo prendere di mira il ministro della Salute Roberto Speranza: «Bisogna spiegargli che ci sono milioni di italiani che rischiano di perdere il lavoro. I dati dicono che la situazione ogni giorno migliora. Speranza pensava che anche le riaperture di fine aprile avrebbero portato i disastri invece fortunatamente la situazione è sotto controllo. Il diritto al lavoro e alla vita è sacrosanto. Bisogna restituire agli italiani fiducia e libertà a partire dalla settimana prossima».  E di secca replica a Letta: «Lui e Beppe Grillo ci vogliono fuori dal governo per approvare ius soli, ddl Zan e patrimoniale? Poveri illusi, gli alleati più leali, di Draghi e dell’Italia, siamo e saremo noi». Di sfondo resta un grande punto di domanda, ovvero se questo conflitto a distanza alla fine, sul medio termine, non mini la tenuta del governo.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Ciriaco Tommaso 
Titolo: Il retroscena – Draghi respinge i veti Avanti per il Recovery “Completerò il mio lavoro”
Tema: tensioni malla maggioranza
– Se c’è una cosa che Mario Draghi considera un punto d’onore, è «completare il lavoro» iniziato. È l’unico modo per mettere sul binario giusto il Recovery, una questione di «serietà». E quindi, non sarà Matteo Salvini a dettare i tempi al premier, nonostante gli scomposti avvertimenti lanciati dalle colonne di Repubblica. Sostenere infatti, come fa il leghista, che non è questo l’esecutivo giusto per le riforme – a partire da quelle della giustizia e del fisco – significa boicottare in partenza due dei pilastri necessari al Next generation Eu. Senza gli interventi strutturali, si «mette a rischio» la montagna di denaro del piano europeo. Draghi non accetterà che accada. «Rispetterò gli impegni presi con il Paese e con l’Europa», ecco il senso dei suoi ragionamenti in queste ore. Perché l’agenda di governo «c’è, è ben definita e non cambia». La scel ta, dirà Draghi nei prossimi mesi, è sempre la stessa: ammainare le «bandiere di parte, pensare all’interesse collettivo». L’alternativa è lasciare che il Recovery si perda nei meandri della burocrazia. E mettere a repentaglio le gigantesche tranche di finanziamento che l’Ue è disposta ad assicurare, a patto che l’Italia cambi pelle. E quindi si torna a Salvini. Al suo schiaffo, che può tradursi brutalmente così: non sarai l’uomo delle riforme, accontentati – si fa per dire del comodo rifugio del Quirinale. Uno sgarbo doppio dell’ex ministro dell’Interno. Contro l’attuale premier, strattonato senza troppi complimenti. E poi contro Sergio Mattarella. Non perché l’attuale Presidente si stia muovendo in questa direzione, ma perché tutte le altre forze politiche di maggioranza discutono da mesi proprio del suo bis. Nessuno tra quelli entrati in contatto con Draghi negli ultimi giorni e nelle ultime ore nega che l’ex banchiere centrale sia irritato, oltreché preoccupato. Forse anche un po’ stufo, perché l’attivismo del leghista rischia di diventare, anzi forse è già diventato un problema. Il timore è che sia alle porte una nuova fase, in cui l’ostilit&agrav e; del leader del Carroccio diventi sempre meno moderata. Il sospetto, temono a Palazzo Chigi, è che la situazione peggiori durante l’estate, con la campagna per le amministrative d’autunno nelle grandi città. La scintilla capace di produrre nuovi equilibri, oppure il caos. Non è quello a cui Draghi intende sottoporsi. Consapevole della portata delle sfide che ha di fronte, ha promesso al Quirinale e ai suoi interlocutori europei e internazionali che farà di tutto per completare il lavoro avviato. Con un obiettivo non dichiarato: trasformare il Paese da laboratorio dei sovranismi ad asset fondamentale dell’unità europea e atlantica, anche in vista del dopo Merkel.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Verderami Francesco 
Titolo: Il retroscena – «Riforme entro febbraio» – Interventi entro febbraio Così l’esecutivo si blinda dagli alleati che litigano
Tema: tensioni nella maggioranza
Il governo lavora con l’obiettivo di mettere in sicurezza le riforme entro febbraio dell’anno prossimo, perché «la semina — come la definisce un ministro — sia completata prima che inizi la corsa per il Colle». Ma il metodo che è stato adottato» a Palazzo Chigi non presuppone un esito prestabilito: è piuttosto un modo per non arrivare impreparati a quel bivio. Che sarà decisivo per la scelta del futuro capo dello Stato, ma che non dovrebbe influire sulla durata della legislatura, siccome (quasi) tutti scommettono sulla sua scadenza naturale. È vero che nel centrodestra la Meloni, e in modo ancor più esplicito Salvini, avanzano la candidatura di Draghi al Quirinale immaginando così di aprirsi un varco verso il voto anticipato. Ed è altrettanto vero che — proprio per evitare le urne — il Pd frena davanti a un simile scenario: «A meno che — spiega un suo rappresentante al govern o — non ci sia un accordo preventivo tra le forze di maggioranza per proseguire fino al 2023. Un’ipotesi che appare piuttosto complicata oggi». Il premier ovviamente non entra in questo gioco tattico, sapendo che se si immergesse nella trattativa con i partiti sul voto per il Colle, finirebbe per compromettere il suo percorso di governo: significherebbe cioè dover scendere a patti sull’agenda delle riforme e finire impantanato in una logorante mediazione senza soluzione. Perciò Draghi assiste alle manovre di quanti a destra fanno il suo nome e di quanti a sinistra cercano di produrre un forcing su Mattarella affinché accetti di essere rieletto. Ammesso che ne avessero davvero l’intenzione, né Letta né Salvini potrebbero staccare la spina a Draghi. Il leader del Pd per ragioni genetiche e perché in ogni caso il suo partito non glielo consentirebbe. Il capo della Lega perché farebbe il gioco della Meloni, provocherebbe la reazione del suo elettorato del Nord che lo ha spinto verso il governo, e perché comunque non otterrebbe le elezioni, visto che un pezzo del centrodestra non lo seguirebbe. Salvini peraltro non ci pensa nemmeno a rompere con Draghi, anche ieri sera lo ha ripetuto dopo l’ennesimo scontro verbale con Letta. Ma proprio questo duello, che sembra montato ad arte per polarizzare l’elettorato, offre l’immagine di una politica incapace di tenere il passo del premier, verso il quale si rivolge ormai la quasi esclusiva attenzione del Paese, come testimonia il suo indice di gradimento nei sondaggi.
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Testata:  Stampa 
Autore:  Mattioli Alberto 
Titolo: Intervista a Matteo Salvini – Salvini, attacco a Letta “Sono la sua ossessione” – “Il campo del Pd è ossessionato parle di me ogni santo giorno”
Tema: tensioni nella maggioranza

«Letta? Evidentemente è ossessionato da Salvini. Continua a parlare di me ogni santo giorno», se la ride Matteo Salvini dopo un veloce passaggio alla manifestazione contro il disegno di legge Zan, in piazza Duomo a Milano. Però è stato lui a sostenere che sarà molto difficile che sia il governo Draghi a fare le riforme. Visto che proprio per questo il governo è nato, ha ribattuto Letta, non si capisce allora cosa ci stia a fare la Lega. Controreplica di Salvini: «Il vero ostacolo alle riforme, soprattutto le due più urgenti, la giustizia e il fisco, non siamo noi. Se la ministra Cartabia venisse a portare in Parlamento una buona riforma della giustizia, i problemi non verrebbero dalla Lega, ma dal Pd e dal M5s». Però il fatto che vi siate alleati ai radicali per promuovere un referendum sulla giustizia non serve esattamente a rafforzare il governo… «Non vogliamo fare un dispetto a Draghi. Semplicemente, su questo tema c’è un’oggettiva convergenza con i radicali, che su mille altri argomenti la pensano all’opposto da noi. Se la riforma riuscisse a farla il Parlamento, tanto meglio. Ma non credo che sarà facile. Vorrei che fosse chiaro che la Lega non ha alcuna intenzione di creare dei problemi a questo governo. I problemi vengono semmai da chi mi attacca un giorno sì e l’altro pure», insomma da Letta, che Salvini nomina il meno possibile anche perché in casa leghista ieri l’ordine di scuderia era quello di non alimentare le polemiche, e il Capitano deve dare l’esempio. Anche se gli brucia, e lo ripete, che da sinistra non sia arrivata alcuna solidarietà dopo gli insulti e le minacce ricevuti via social per aver espresso solidarietà a Israele attaccato. Ma è un Salvini più di governo che di lotta: «Letta e Grillo ci vogliono fuori dal governo per approvare Ius soli, legge Zan e patrimoniale? Poveri illusi. Gli alleati più leali di Draghi siamo noi», twitterà in serata, lanciando il nuovo hashtag leghista: #ossessionati (sottinteso: da lui). C’è poi il capitolo Quirinale. Conferma che come nuovo inquilino ci vedrebbe bene Draghi? «La Lega lo voterebbe con entusiasmo. Non credo che succederebbe lo stesso con il Pd, che di candidati al Colle ne ha fin troppi, almeno unadecina, e di fronte a Draghi sarebbe in imbarazzo».
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Testata:  Stampa 
Autore:  Giannini Massimo 
Titolo: Pax draghiana e stanchi litigi della politica
Tema: governo
La chiamano “Pax Draghiana”. È calata sull’Italia 90 giorni fa. Domani saranno tre mesi esatti da quel 17 febbraio, quando il nuovo governo presieduto da Draghi, dopo aver giurato il 13 nelle mani del Capo dello Stato, otteneva al Senato il suo primo voto di fiducia, bissato il giorno dopo alla Camera. Dunque è già tempo di bilanci. Stiamo meglio di prima? Il presunto Salvatore dellaPatria ci ha salvato davvero? Il tanto atteso “cambio di passo” c’è stato sul serio, o è solo materia per la rituale agiografia dei mass-media? I sondaggi di Alessandra Ghisleri dicono che per SuperMario la “luna di miele” con gli italiani si sta consumando: la fiducia nel premier, partito oltre quota 60, è scesa di una decina di punti. Forse è normale che sia così. Su Draghi si erano concentrate aspettative smisurate: compatibili forse con la statura del personaggio, ma non con la natura anomala del suo governo e con la struttura fragile del Paese. Se guardiamo alle due emergenze che Sergio Mattarella ha indicato nel conferirgli l’incarico, non si può non vedere che il presidente del Consiglio di passi avanti ne ha fatti. Sul fronte Covid il piano vaccinale sta gradualmente rimontando. Sul fronte Recoveryil Piano di resilienza e rilancio è giunto al traguardo nei termini, consegnato alla Ue per lo stacco del primo “acconto” e rafforzato rispetto alla prima stesura (benché ancora carente su alcuni capitoli, come le risorse per la sanità e gli asili nido). I nostalgici che nei palazzi e nei giornali ancora si ostinano a osservare il presente con gli occhiali del passato, e a ripetere ogni volta “quando c’era Conte”, dovrebbero mettersi l’anima in pace.
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Testata:  Stampa 
Autore:  Grignetti Francesco 
Titolo: Belloni cambia il volto dei Servizi Salta il capo della cyber-sicurezza
Tema: servizi segreti
Con l’uscita di scena del direttore Gennaro Vecchione, e l’arrivo domani di Elisabetta Belloni, si apre una nuova stagione al vertice dei servizi segreti. Che il clima non sia dei migliori al Dipartimento informazioni e sicurezza, lo sussurrano in tanti. Prova plateale è stato il commiato del direttore uscente, che due giorni fa non ha fatto mancare qualche veleno su Marco Mancini, lo 007 protagonista dell’affaire dell’autogrill. C’è da capirlo: Vecchione è stato tra i più accesi sostenitori del dirigente Mancini, spendendosi per portarlo alla vicedirezione dell’Aisi. La cosa nel gennaio scorso però non s’è concretizzata. E da quel momento è calato il gelo tra i due e i rispettivi fan. Vecchione ritiene a questo punto che sia stato proprio Mancini la sua buccia di banana. Il primo problema di Elisabetta Belloni sarà di riprendere le redini di un Servizio dove la guerra per cordate non ha mai portato nulla di buono. Così s i danno già in uscita un gruppo di 007 che sono stati portati al Dis da Vecchione, considerati, a torto o a ragione, troppo legati al vecchio assetto. È sempre più pencolante, poi, la poltrona di Mancini, incaricato di vigilanza sull’uso dei fondi riservati, a carico del quale il Copasir (dove non si è ancora risolta la frattura per la presidenza, negata all’unico partito di opposizione, Fratelli d’Italia) ha chiesto al Dis un’indagine. Si vedrà quali saranno le conclusioni sull’incontro irrituale tra Mancini e Matteo Renzi. Così come, grazie a «Report», sono emersi anche incontri tra Mancini e Matteo Salvini.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Bonini Carlo 
Titolo: Ecco perché lo 007 Mancini fa ancora paura – Il metodo Mancini Ecco perché lo 007 fa ancora paura al Palazzo
Tema: servizi segreti

L’affaire dell’autogrill Renzi-Mancini è una palla di neve che si è già fatta slavina e minaccia di diventare valanga. Perché il sacrificio umano di Gennaro Vecchione (rimosso dal vertice del Dis mercoledl scorso), ragionevolmente, non basterà. Perché Marco Mancini, o se preferite “doppio Mike”, come apostrofano la sessantunenne spia emiliana di Castel San Pietro fa paura. E non solo e non tanto perché, in queste ore, lo raccontano più irragionevole del solito. Tutt’altro che disposto a una onorevole resa e uscita di scena, quanto, piuttosto, animato da robusti propositi di vendetta. Al punto da essersi messo personalmente alla ricerca della fonte di “Report” nei suoi conversad all’autogrill. Ma perché, se possibile, ancora più vittima di se stesso e della convinzione – che lo accompagna come una scimmia sulla spalla dal 2006, anno in cui entrò in carcere due volte, prima per la vicenda Abu Omar e quindi per lo spionaggio della struttura illegale che faceva capo a Telecom – di essere vittima di un complotto ordito dai suoi nemici interni ai Servizi. Di una conventio ad excludendum che gli avrebbe illegittimamente interdetto l’approdo ai vertici dei Servizi. Già, seduto sul doppio-fondo di alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e dei suoi apparati, Mancini è una di quelle bombe a orologeria che la politica e gli stessi apparati hanno sempre avuto angoscia a maneggiare e non sono mai riusciti a disinnescare. L’uomo – che è di notevole intelligenza intuitiva – capisce infatti presto che è proprio nella fragilità, pubblica e privata, della politica, delle sue classi dirigenti, e nella forza del ricatto che la tiene insieme e ne governa la cooptazione e la selezione, che è il tesoro di una spia come lui. L’autogrill di Fiano, da questo punto di vista, è solo un inciampo del destino.
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Economia e finanza

Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Pogliotti Giorgio – Tucci Claudio 
Titolo: Recovery plan, spinta alla produttività (+0,6%) – Il Pnrr riaccende la produttività: spinta da digitale, Pa e giustizia
Tema: Recovery
Dal corposo programma di riforme del Pnrr si attende una ripresa dell’economia, con un incremento della produttività che segna un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi venti anni. In via prudenziale, si valuta che l’attuazione del Piano porterà il tasso di crescita del Pil potenziale all’1,4% nel 2026, anno finale del programma, con un incremento dello 0,6% della produttività totale dei fattori, dello 0,5% della componente lavoro e dello 0,3% della componente capitale. Ma un ulteriore aumento «può derivare da una risposta più forte di quanto stimato della spesa per investimenti». Dalla digitalizzazione, dalle riforme della Pubblica amministrazione, della giustizia, del mercato del lavoro, da una maggiore concorrenza, dal programma di investimenti in Ricerca e sviluppo e nelle infrastrutture (specie al Sud) il governo si attende un’importante correzione di rotta, considerando che dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri Paesi avanzati europei, c’è soprattutto l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2%e del 21,3%. La produttività totale dei fattori, indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2% tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo. Le aspettative sono di un recupero del terreno perso rispetto ai competitor europei. «È importante che il Pnrr affronti uno dei principali mali dell’economia italiana degli ultimi decenni – afferma Andrea Gamero, economista alla direzione per l’Occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse -, la ripresa della produttività, tema pressoché assente dal dibattito politico italiano. Come per una nave incagliata da decenni, c’è da attendersi una ripartenza che, almeno per la fase iniziale, avverrà con pochi nodi di velocità. È rilevante, tuttavia, che vi sia questa inversione di rotta, e che non si esaurisca nel breve termine ma venga confermata n ell’arco del Piano».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Santilli Giorgio 
Titolo: Intervista a Irene Tinagli – «Recovery, sulle riforme serve confronto credibile agli occhi di Bruxelles»
Tema: Recovery
«Il governo ha fatto un buon lavoro sul Recovery n Plan, rafforzando le riforme, con dettagli e cronoprogramma, e i piani di investimento della transizione ecologica e digitale. Quello che serviva. Ma l’approvazione è solo la prima fase e la seconda, in cui dovremo cominciare a rispettare gli impegni presi, sarà più impegnativa, anche politicamente. Il Pd si sta preparando con serietà sulle singole riforme in vista del confronto parlamentare, siamo partiti da giustizia e semplificazioni. Non siamo i soli, altri componenti della maggioranza stanno lavorando con impegno. Mi preoccupa invece che alcuni partiti partner di governo non abbiano la stessa consapevolezza di quanto sia importante varare queste riforme, facendo un lavoro serio e rispettando i tempi». Irene Tinagli, economista, fa da qualche settimana due lavori, la presidente della commissione Affari economici e monetari del Parlamento Ue e la vicesegretaria del Pd. A Bruxelles gode di un osservatorio strategico, anche sul Recovery. Che giudizio ci dobbiamo aspettare da Bruxelles sui Pnrr? «La commissione ha due mesi per valutare il piano e ha appena iniziato il lavoro. II Parlamento in questa fase fa solo monitoraggio, interloquendo con la commissione su aspetti generali, non sui singoli piani Al momento non mi pare di aver intercettato a Bruxelles difficoltà particolari per l’approvazione del piano. Semmai lo ripeto, la fase difficile sarà la seconda e l’approvazione delle riforme è il passaggio decisivo. Anche a Bruxelles sanno che questo sarà l’aspetto più difficile, e non solo in Italia. Per questo dico che nel processo riformatore serve uno sforzo intenso, serio e unitario. Non possiamo dare l’idea che quando c’è da prenderei soldi siamo compatti e ciu dividiamo quando c’è da rispettare gli impegni presi II piano si chiama Next generation, non Next election».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Santilli Giorgio 
Titolo: Rincari record, cantieri a rischio – I rincari record dei materiali mettono a rischio i cantieri
Tema: Edilizia

E’ in corso un abnorme rincaro di materiali per il settore delle costruzioni che sta mettendo a rischio i cantieri in corso e riducendo ulteriormente i margini delle imprese di appalti pubblici e privati già compressi da una crisi decennale. Un rallentamento dei lavori potrebbe arrivare anche dal fatto che alcuni materiali cominciano a scarseggiare, per esempio i ponteggi in ferro, interessati anche da un forte aumento di domanda. L’aumento dei prezzi è cominciato dalla fine del 2020 e riguarda metalli, materie plastiche derivate dal petrolio, calcestruzzo e bitumi. A denunciare il fenomeno è l’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori. La rassegna dei rincari parte proprio da acciaio e ferro: il tondo per cemento armato fa segnare un incremento del 117% tra novembre 2020 e aprile 2021. Una dinamica che l’ultimo rapporto Ocse dello scorso dicembre ha attribuito all’improvviso incremento della domanda del settore delle costruzioni in Cina. Questo ri mbalzo ha innescato un effetto al rialzo sul prezzo di tutta la filiera dell’acciaio, a livello mondiale, poiché la Cina rappresenta oltre il 50% della produzione e del consumo mondiale dell’acciaio (il 40% è assorbito dalle costruzioni cinesi). A questo si aggiungono gli effetti della pandemia, che ha comportato scarsità di offerta per le continue chiusure industriali e commerciali nel mondo, e quelli della ripresa, che ha generato un forte aumento della domanda. Gli effetti si sono avvertiti soprattutto in Europa, dove rincari si registrano anche in Francia, Germania e Regno Unito. Parallelamente agli aumenti di prezzo dei prodotti siderurgici, si osservano incrementi importanti anche in altri materiali di primaria importanza per l’edilizia,
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Voltattorni Claudia 
Titolo: Rimbalzo dei consumi, ma il recupero è lontano
Tema: consumi

Da un lato, torna positivo il Pil con un + 3,7% nel mese di maggio rispetto ad aprile (+ 10,7% rispetto al maggio 2020) ma dall’altro, «la crescita è ancora più un auspicio che una realtà». Invita alla prudenza il rapporto di Confcommercio sulla Congiuntura di maggio. Perché, dice il direttore dell’Ufficio Studi dell’Associazione dei commercianti, Mariano Bella, «il terreno da recuperare è molto e solo a partire da giugno, se confermate le tendenze in atto e le correlate riaperture, la ripresa potrà assumere intensità soddisfacente». Ma i numeri fanno ben sperare in un rimbalzo che sembra sempre più vicino. I consumi ad esempio. L’indicatore di Confcommercio segnala una forte crescita per il secondo mese consecutivo con una variazione annua di +45% sul 2020. Ma se si guardano i consumi dello stesso periodo del 2019 il segno è ancora negativo: -23%. Si legge nel report: «Si tratta, nella realt à, di incrementi in volume minimi rispetto a un livello di attività che da marzo 2020 è stato praticamente nullo». I crolli infatti, se si considera l’aprile 2019, arrivano a toccare anche il 70%. Il settore dei servizi, con il turismo e tutta la filiera ricreativa, è tra i più colpiti e dove, avverte Confcommercio, «si concentrano i rischi di chiusure di attività se non verrà data al più presto la possibilità di operare in. modo meno restrittivo, oltre che a intervenire con adeguati sostegni».
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Testata:  Stampa 
Autore:  Baroni Paolo 
Titolo: Emergenza liquidità per le Pmi fondi per 3,2 millardi dal governo
Tema: Sosttegni bis

È arrivato il momento di garantire nuova liquidità alle imprese, soprattutto le più piccole. Rispetto ai 280 miliardi di euro accordati a partire da marzo 2020, stando all’ultimo rilevamento eseguito dalla task force Mef-Mise-Bankitalia-Abi-Mcc-Sace, le moratorie sui prestiti tuttora attive valgono 157 miliardi, a fronte di 1,4 milioni di sospensioni accordate. Per quanto riguarda le piccole e medie imprese, in particolare, sono ancora attive le sospensioni introdotte dal «Cura Italia» per un ammontare di 120 miliardi, mentre superano quota 161 miliardi le richieste di garanzia per i nuovi finanziamenti bancari da parte di circa 2 milioni di micro, piccole e medie imprese presentati al Fondo di Garanzia per le pmi. Attraverso «Garanzia Italia» di Sace i volumi dei prestiti garantiti hanno invece raggiunto i 23,3 miliardi di euro. Ci sono poi le moratorie a favore delle famiglie che valgono 29 miliardi (5 di mutui prima casa). La situazione , insomma, migliora. Ma il fardello resta pur sempre pesante, soprattutto per le pmi, e questo induce il governo ad intervenire ancora per evitare che un eventuale credit crunch possa soffocare la ripresa post Covid. Molte imprese hanno ripreso a rimborsare le banche, ma l’uscita dal tunnel è ancora lontana. Per questo il decreto Sostegni bis che vedrà la luce la prossima settimana prevede un nuovo capitolo intitolato «Misure per l’accesso al credito e la liquidità delle imprese» che impegna oltre 3,2 miliardi per assicurare prestiti più «pazienti» alle imprese.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Conte Valentina 
Titolo: Il governo smantella Anpal in stallo le misure per l’occupazione
Tema: lavoro

L’Anpal si avvia ad essere una scatola vuota. Proprio nel momento in cui l’Agenzia nazionale per le politiche attive – nata il primo gennaio 2016 – servirebbe di più per rilanciare la formazione e l’occupabilità dei lavoratori, grazie anche al copioso supporto dei fondi Ue ordinari e straordinari come il Recovery. Il cambio di governance di Anpal deciso dal ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) – e destinato a vedere la luce nell’imminente decreto Sostegni bis – ne farà decadere cda, direttore generale e il discusso presidente Mimmo Parisi. Al loro posto un commissario straordinario, forse Raffaele Tangorra, segretario generale del ministero con il Conte II e ora con Draghi. Ma quale sarà l’effetto su 2,5 milioni di disoccupati, 14 milioni di inattivi, un milione di percettori del Reddito di cittadinanza in attesa delle tre proposte di lavoro e sugli esuberi che si materializzeranno dal primo luglio, quando le grandi imprese saranno di nuovo libere di li cenziare? Il rischio flop esiste. Un’Anpal ridotta ai minimi termini, svuotata del prestigioso Fondo sociale europeo – 27 miliardi nel 2021-2027 – trasferito armi e bagagli al ministero del Lavoro, di fatto serve a poco. Si torna indietro di sei anni, cancellando il Jobs Act di Renzi che nel 2015 creò l’Anpal convinto poi di vincere il referendum costituzionaIe e riportare la competenza sulle materie del lavoro dalle Regioni a Roma. E invece lì sono rimaste, con banche dati che non si interfacciano, centri per l’impiego in affanno, esempi virtuosi e disastri, navigator prima isolati e osteggiati, poi usati poco e male. Indietro tutta, dunque. Qualcuno nei corridoi romani di via Veneto – sede del ministero del Lavoro – già indovina come finirà: «Vedrete che tra un po’, forse in legge di Bilancio, Anpal sarà sciolta».
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Greco Andrea 
Titolo: Cdp, tra Palermo e Scannapieco una poltrona per due
Tema: Cdp
A undici giorni dall’assemblea dei soci di Cassa depositi e prestiti il governo non ha ancora deciso se confermare l’ad al rinnovo, Fabrizio Palermo, o sostituirlo con il vicepresidente della Bei e presidente del Fondo europeo per gli investimenti (Fei), Dario Scannapieco. Quest’ultimo sembra in leggero vantaggio, per i 15 anni di attività nelle istituzioni sovranazionali, dopo i suoi inizi da civil servant al Tesoro, proprio tra i Draghi boys. O forse a pesare sulla scelta che Mario Draghi ha avocato a sé sarà il “peccato originale” di tre anni fa, quando Palermo, che era direttore finanziario in Cdp, fece leva sui M5s ancora potenti per essere preferito proprio a Scannapieco, appoggiato dal centrosinistra e dalle Fondazioni bancarie detentrici del 16%. Si tratta di una rivincita bella e buona: finora nessuno ai piani alti di governo, Tesoro e maggioranza sa chi la spunterà. Il presidente del consiglio, come ha già detto e mostrato su altri dossier , deciderà lui aprendo e chiudendo il dossier a ridosso dell’assemblea del 27. Non per questo l’ex banchiere centrale è rimasto inerte: anche perché l’istituto di promozione nazionale, che gestisce i 275 miliardi del risparmio postale ed è il primo investitore nostrano, in tre anni ha ampliato molto perimetro e funzioni. E avrà un ruolo centrale nella messa a terra del Pnrr italiano da 221 miliardi, con cui voltare pagina dopo la pandemia. Settimana scorsa Francesco Giavazzi, docente alla Bocconi e di Draghi consulente economico, risulta abbia visto i due dirigenti antagonisti (più altri: sono in scadenza 500 poltrone di partecipate pubbliche). Dal poco che filtra, avrebbe avuto articolati colloqui con entrambi.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Petrini Roberto 
Titolo: Meno aliquote o semi flat tax i partiti alla battaglia del fisco
Tema: fisco

La riforma fiscale è sulla pista di decollo e c’è buona possibilità che nel 2022 avremo una nuova Irpef. La Commissione Bicamerale per l’indagine conoscitiva sulle tasse, dopo 61 audizioni e quattro mesi di lavoro, ha quasi concluso il suo compito. Il ministero del Tesoro ha fatto sapere che non creerà una commissione di studio ad hoc ma si baserà sui risultati dell’organismo parlamentare per scrivere il disegno di legge delega. Ora lo sguardo è rivolto al documento di sintesi della Bicamerale, atteso per fine giugno. Nel frattempo tutti i partiti, su sollecitazione della Commissione, stanno depositando le proprie proposte. E già possibile fare un quadro con un segno comune: le ipotesi più estreme, come la flat tax radicale e il modello tedesco più progressivo e teso a riportare molte imposte nell’Irpef, sembrano defilarsi. Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sembrano attestarsi su una flat tax incrementale, cio&egrave ; valida solo per i redditi aggiuntivi, mentre Pd e M5S insistono su una riduzione del numero delle aliquote e su un intervento sul secondo e terzo scaglione dove esplodono le aliquote marginali che penalizzano i lavoratori del ceto medio basso. Tutti vogliono semplificare e tutti guardano alla famiglia puntando sull’assegno unico.
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Societa’, istituzioni, esteri

Testata:  Repubblica 
Autore:  Nizza Sharon 
Titolo: Gaza, raid israeliano distrugge il palazzo dei media – Raid israeliano a Gaza colpita la torre dei media Razzo uccide a Tel Aviv
Tema: Medio Oriente
Nella quinta giornata di combattimenti tra Israele e Hamas, l’aviazione israeliana continua a bombardare senza sosta la Striscia di Gaza, mentre il 75% della popolazione dello Stato ebraico si trova nel raggio dei missili di Hamas e vive accanto ai rifugi. Nella notte di venerdì, le bombe israeliane colpiscono il campo profughi Shati a nord della Striscia. Tra le vittime ci sono anche 8 bambini e 2 madri della famiglia Abu Hatab. Nella giornata di sabato i caccia israeliani riducono in macerie il Bud al-Jalaa, un palazzo di 15 piani che ospitava anche gli uffici di Al Jazeera e dell’agenzia stampa Ap. Secondo Israele «dal Burj al-Jalaa operaa va l’intelligence militare di Hamas». L’edificio si aggiunge ad altri quattro palazzi distrutti negli ultimi cinque giorni con le stesse modalità. Agli inquilini era stata data un’ora di tempo per evacuare. In un video trasmesso 20 comandanti è riportata la trattativa telefonica tra un ufficiale israeliano e il p roprietario del palazzo che supplica i militari di fornire dieci minuti in più per consentire ai giornalisti di recuperare attrezzature, imbattendosi nel rifiuto: «Vi abbiamo dato un’ora per evacuare, che nessuno rientri, è per loro, non per me, ne va della vostra vita».
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Testata:  Corriere della Sera
Autore:  Frattini Davide 

Titolo: Razzi su Tel Aviv Distrutta a Gaza la Torre dei media – Gaza, strage al campo dei rifugiati Distrutta la Torre dei giornalisti
Tema: Medio Oriente
 I portavoce dell’esercito sostengono di aver voluto colpire «elementi di spicco dell’organizzazione» e accusano Hamas di usare i civili come scudi umani. I fondamentalisti vendicano l’attacco a Shati con un lancio di razzi su Tel Aviv e il centro di Israele. Gli artiglieri delle truppe irregolari stanno studiando come bucare il sistema di difesa Cupola di ferro. Ieri dopo pranzo ci sono riusciti: due salve di fila, brevi, e poco dopo un bombardamento di qualche minuto. Uno dei proiettili è caduto su Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, un uomo di 55 anni è stato ucciso, non ha fatto in tempo a trovare il rifugio. Le vittime israeliane dall’inizio della guerra sono 10, tra loro un bambino di 5 anni. I miliziani hanno peril resto della giornata concentrato i razzi sulle città nel Sud del Paese e verso Beer Sheva nel deserto del Negev, da lunedì ne hanno lanciati oltre 2.300. L’aviazione israeliana e i carrarmati hanno continuato a bersagliare la S triscia, i morti sono ormai 145, i feriti un migliaio. La mediazione per raggiungere la tregua sembra per ora non funzionare: i negoziatori egiziani avrebbero messo sul tavolo — ricostruisce la tv Al Arabiya — una proposta (respinta dagli israeliani) che prevedeva il congelamento delle costruzioni nelle colonie e lo stop agli sgomberi delle famiglie palestinesi a Gerusalemme Est. Oggi Hady Amr, il diplomatico americano responsabile per la questione israelo-palestinese, incontra i ministri israeliani e a Ramallah quelli palestinesi. Il presidente Joe Biden ha parlato con il premier Benjamin Netanyahu e con Abu Mazen per la prima volta da quando si è insediato alla Casa Bianca. Dal quartier generale delle forze armate di Tel Aviv, nella notte Netanyahu ha proclamato che «l’operazione *non è finita e che andrà avanti finché sarà necessario».
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Cremonesi Lorenzo 
Titolo: Intervista a Tom Segev – «In azione le ali estremiste Ma non è la terza intifada» – «La guerra rafforza Hamas e Bibi Gli scontri etnici sono la novità grave Ma non è un’intifada»
Tema: Medio Oriente
 «Questa non è una . terza intifada. O almeno non lo è ancora diventata e non credo lo sarà. Manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. Hamas da Gaza detta il ritmo del conflitto militare. Mi ha però molto colpito lo scontro interno ai confini di Israele del 1948 tra cittadini arabi ed ebrei. Non ce lo aspettavamo tanto violento». Tom Segev parla da Gerusalemme. Autore di alcune opere fondamentali sulla storia di Israele, per decenni commentatore per il quotidiano Ha’aretz, Segev insiste sull’unicità di questa nuova ondata di violenze. Che cosa vede di nuovo? «L’intensità dei disordini in località che sono al cuore dello Stato. Lod, la vecchia Lydda araba dove oggi si trova l’aeroporto internazionale: qui bande di ragazzini hanno bruciato tre sinagoghe. Come anche le aggressioni di Ramla, Acri e Jaffa, alle porte di Tel Aviv. Nel 1948 l’esercito israeliano aveva espul so praticamente tutta la vecchia comunità palestinese. Poi però una parte degli abitanti originari era tornata. Con i decenni erano diventati luoghi modello di coesistenza, pur se con grossi problemi di povertà e droga. Mi ha sinceramente sorpreso il saccheggio all’hotel di Acri, non lo ritenevo possibile. Sino a pochi mesi fa i nostri media raccontavano con entusiasmo del ruolo fondamentale giocato dal medici e dagli infermieri arabi negli ospedali mobilitati per l’emergenza Covid. Arabi nati e cresciuti tra noi, israeliani a tutti gli effetti. Avevamo scoperto che gran parte delle nostre farmacie era tenuta da farmacisti arabi. Però, attenzione, non credo si tratti di pogrom, o di “Notte dei Cristalli”, sono gravi violenze organizzate come abbiamo visto di recente in Francia o negli Stati Uniti». Come lo spiega? «Sono una minoranza. Ma aggressiva, ostile. La polizia non ha saputo contrastarla. A Lod, per esempio, il sindaco ha imposto il coprifuoco. Ma nessuno lo ha rispettato. Come pochi mesi fa, del resto, le forze dell’ordine non riuscivano a obbligare gli ebrei ortodossi ad indossare la mascherina e restare in casa. Abbiamo scoperto di essere un Paese poco governabile, quasi anarchico. Ne hanno approfi ttato anche gli estremisti ebrei».
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Testata:  Sole 24 Ore 
Autore:  Bongiorni Roberto 
Titolo: Distante e cauto, così Biden guarda alla crisi
Tema: Medio Oriente
Il presidente americano Joe Biden è deciso a trovare un’intesa sul nucleare con l’Iran. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è ancora più determinato; a evitarla però. Ad ogni costo. Le relazioni tra Stati Uniti e Israele non sono e probabilmente non saranno più quelle dell’era Donald Trump. Nessuno mette in discussione la storica alleanza, la reciproca stima e il profondo legame tra i due Paesi Lo dimostrano anche i finanziamenti. Per quest’anno andranno a Israele 3,9 miliardi di dollari in aiuti (in gran parte assistenza militare). Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli Usa hanno erogato al piccolo (territorialmente) alleato la ragguardevole cifra di 146 miliardi di dollari. Mai con nessun’altro sono stati tanto generosi. Eppure il presidente americano sembra guardare al conflitto tra Israele ed Hamas con distacco. E pur ribadendo il diritto di Israele a difendersi, ha invitato Gerusalemme alla moderazione, mostrando anche attenzion e sul tema dei diritti umani. «Biden è stato riluttante a farsi risucchiare in un prolungato conflitto israelo-palestinese, preferendo invece fare affidamento sui partner regionali per porre fine alla peggiore violenza dal 2014», ha scritto il Financial Times. Più la guerra cresce di intensità, più le vittime civili aumenta, più il partito democratico americano si sta dividendo sul conflitto in Israele. E, pur da sempre un sostenitore dello Stato ebraico, Biden pare non voler assumere iniziative drastiche, privilegiando un approccio diplomatico regionale e multilaterale. Ne è riprova che ieri ha avuto un colloquio telefonico sia con Netanyahu sia con il presidente palestinese Abu Mazen. Difficile che le relazioni tra Gerusalemme e Washington cadano ai minimi toccati nel secondo mandato di Barack Obama. Ma quel connubio e quella comunanza di interessi che legavano Trump e Netanyahu non sono più ripetibili con Biden.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Santevecchi Guido 
Titolo: Bandiera rossa cinese sul Pianeta rosso – Pechino su Marte (e nell’élite spaziale)
Tema: sonda cinese su Marte
 «Salute, amici terrestri. Io sono qui, impaziente di scoprire che cosa c’è su Marte». Gli scienziati cinesi hanno donato anche la parola al loro robot Zhurong, che ieri mattina si è posato sul Pianeta rosso. La conquista è stata seguita dalla tv statale in una trasmissione straordinaria intitolata «Nihao Huoxing», Ciao Marte: una narrazione studiata per accendere immaginazione e entusiasmo popolare. L’amministrazione cinese dello spazio ha voluto aggiungere un tocco di drammaticità, sottolineando che «9 minuti di terrore» hanno preceduto il coronamento dell’impresa, dopo 295 giorni di viaggio e 3 mesi di orbita marziana. I 9 minuti di terrore si riferiscono al buco nelle comunicazioni che ha avvolto l’ultima fase dello sbarco, un ritardo snervante e inevitabile, a causa del tempo che il segnale radio impiega ad arrivare da Marte, che ieri era distante 320 milioni di chilometri dalla Terra. In quei minuti critici, i controllori della missione non hanno potuto seguire in tempo reale la discesa. E una fase delicatissima, perché bisogna evitare che il veicolo sprofondi in un cratere o subisca un impatto contro una roccia. In passato, durante questo «blackout di terrore» scientifico, la metà delle sonde spedite su Marte dagli americani e tutte quelle dei russi avevano fallito, andando perdute. Finora solo la Nasa era riuscita più volte nella missione. Ora Pechino si è innalzata allo stesso livello degli Stati Uniti, che a febbraio hanno portato su Marte il loro Perseverance. Questa duplicazione di sforzi, senza alcuna collaborazione tra le superpotenze, riporta alla sfida Usa-Urss della Guerra fredda.
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Testata:  Repubblica 
Autore:  Riotta Gianni 
Titolo: Le domande al cielo di Xi
Tema: sonda cinese su Marte

Pechino intende, entro questa decade, primeggiare nel cosmo con i taikonauti, come la stampa definisce i cosmonauti. La sfida pone dilemmi strategici al presidente Usa Joe Biden, al leader russo Putin e all’Unione Europea. Nel 2018 i cinesi hanno lanciato più satelliti di ogni altra potenza, nel 2019 sono arrivati sulla faccia nascosta della Luna e i missili Lunga Marcia hanno buona tenuta. Xi non nasconde le ambizioni, elogiando gli scienziati che ha raccolto nella città di Xiongan, un’ora d’auto da Pechino, trasformata da sonnolenta provincia in polo aerospaziale. Il presidente cita il vecchio slogan di Mao Zedong, da cui eredita il potere assoluto, ai tempi della Guerra Fredda, quando i cinesi erano vassalli di Mosca, “Due Bombe, un Satellite”, coniugare scienza e arsenale militare. Il prossimo, ambizioso, passo è il varo di una stazione spaziale cinese, in concomitanza con la fine della stazione Usa, Iss, entro il 2024. Per non rinfocolare venti di guerra Pec hino promette accesso internazionale alla futura base, e vanta la collaborazione con Agenzia spaziale europea, Francia, Austria, Argentina, oltre agli accordi con Putin. La diplomazia suadente non basta, però, a convincere la Casa Bianca e i comandi militari del Pentagono. In un documento del 25 gennaio scorso l’aviazione Usa ha definito in proposito l’Air Force Doctrine sul Counterspace, guerriglia spaziale che potrebbe scatenare il caos sui cieli. Ogni attività aerospaziale ha dual use, ribaltandosi facilmente in guerra, colpendo satelliti nemici o, con operazioni di jamming, accecando via laser i centri che regolano navigazione Gps, telefonia, teletrasmissioni, web, paralizzando un Paese rivale o disorientandolo con lo spoofing, che manda comandi alterati ai server di terra. Per questo, nel giugno del 2020, Xi ha ordinato di dislocare il sistema satellitare BeiDou, alternativa cinese al Gps.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Caprara Giovanni 
Titolo: Novanta giorni per studiare ghiacci e rumori
Tema: sonda cinese su Marte

Lo sbarco del rover Zhurong nella pianura di utopia Planitia vicino alla scogliera di un antico oceano, dimostra le elevate capacità tecnologiche raggiunte dagli scienziati cinesi. Maturate con le recenti missioni automatiche sulla Luna, l’arrivo sulla superficie marziana rappresentava tuttavia una sfida ben più rilevante: metà delle 49 missioni finora inviate da Stati Uniti e Russia dagli anni Sessanta sono fallite. Per lo sbarco bisognava padroneggiare la costruzione di paracadute supersonici, il buon funzionamento di razzi frenanti ma in particolare un sistema di navigazione e controllo automatico capace di garantire un ammartaggio soffice. Questa operazione era aiutata da un apparato che scandagliava il suolo negli ultimi metri e comandava lo spostamento del veicolo se la traiettoria lo portava in un’area rischiosa. Lo stesso tipo di strumento era stato impiegato per la prima volta anche dal rover Perseverance della Nasa giunto nel febbraio scorso. Zhurong, d ella taglia analoga allo Spirit della Nasa dei 2004, è alimentato da celle solari e assieme al veicolo madre rimasto in orbita, ha soprattutto l’obiettivo di studiare i ghiacci marziani. Per questo entrambi sono dotati di radar che scandaglieranno le calotte polari con ghiaccio d’acqua e di anidride carbonica ma anche quello esistente nei primi strati del sottosuolo perché, hanno sottolineato gli scienziati cinesi, rappresenta una preziosa risorsa per future missioni.
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Testata:  Corriere della Sera 
Autore:  Romano Sergio 
Titolo: L’ago della bilancia – Nazionalismi, per la Ue un malinteso da risolvere. Anche con il divorzio
Tema: l’Europa e i nazionalismi

BreXit ha riaperto una questione che sembrava risolta. Credevamo che la Scozia, per divorziare dall’Inghilterra, non avesse più bisogno di un referendum. Dovremo invece assistere a un duello fra il patriottismo scozzese e un primo ministro britannico, Boris Johnson, che cercherà di impedire il referendum e sembra trattare questa vicenda con la mentalità imperiale di Margaret Thatcher. Non basta. Speravamo che l’allargamento della Ue negli scorsi anni, dopo la disintegrazione della Unione Sovietica e lo scioglimento del Patto di Varsavia, dimostrasse l’esistenza di un crescente sentimento europeista, e siamo invece costretti a constatare che sta risvegliando le rivendicazioni nazionali, se non addirittura i nazionalismi. Lo abbiamo visto in Spagna, dove i sentimenti di Barcellona per Madrid non sono diversi da quelli di Edinburgo per Londra. E lo abbiamo constatato in Polonia e Ungheria, dove i governi di Viktor Orbán e Mateusz Morawiecld non rispettano i p rincipi etico-politici della Unione Europea, di cui sono membri dal 2004, e pretendono di continuare a violarli. Non è tutto. In un mondo sempre più globalizzato dove le frontiere dovrebbero diventare sempre più irrilevanti, e lo scambio delle merci da un Paese all’altro sempre più facile, abbiamo assistito nelle scorse settimane a una prova di forza, fortunatamente incruenta, tra pescherecci francesi e inglesi. Credo che il nucleo originale composto dai sei Paesi che avevano firmato i Trattati di Roma in Campidoglio il 25 marzo 1957 (Francia, Germania , Italia e i tre Paesi del Benelux) stiano pagando il prezzo di una ubriacatura. Non hanno capito di essere alquanto diversi dai Paesi che li avrebbero raggiunti negli anni successivi.
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