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Pomarico: L’impresa deve ridistribuire il bene. È come una lampadina

08.12.2020

articolo di Antonella Gaeta pubblicato su
La Repubblica – Bari l’8 dicembre 2020

 


Il cavalier Pomarico è un piantatore di alberi, la semina per lui è importante quanto la raccolta, ha cura delle radici come dei frutti. La Fondazione Megamark, la onlus dell’omonimo Gruppo di Trani, che presiede, ha compiuto vent’anni il 6 dicembre, giorno di san Nicola, perché è nata in memoria di suo fratello Nicola, in un primo momento denominata “Nicolaus”. È uno strumento speciale, nel suo statuto ha per vocazione il “contribuire al benessere del territorio”. In questi anni i suoi passi sono stati molti, dai progetti di responsabilità sociale finanziati con
“Occorre sempre porre orecchio per cogliere i segnali deboli, perché a sentire i segnali forti sono bravi tutti”

“Orizzonti Solidali” al Premio letterario nazionale per opere prime nato in seno ai Dialoghi di Trani. Da stanotte, un albero alto 26 metri donato a Bari ne illumina largo Giannella, e per un mese arriveranno 100 spese al giorno alle famiglie in difficoltà. Insomma, le azioni che seguono i pensieri di Giovanni Pomarico, nona caso insignito di un titolo, Cavaliere del Lavoro, che sa d’antiche pugne, andrebbero raccontate una a una, vedi il progetto di filiera etica dei suoi supermercati, nato con l’associazione NoCap, ovvero prodotti con bollino Iamme contro il caporalato.

Cavaliere, un ventennale in un  momento davvero unico, pandemico, per questo avete annullato “Orizzonti solidali 2020” e devoluto 400mila euro alla sanità pugliese.
«È una risposta doverosa, siamo soliti fare ricognizioni sui bisogni della comunità, che sono tantissimi. Allora, con mio figlio Francesco, abbiamo deciso di prenderci un anno sabbatico, per così dire, comunque continuando a sostenere le necessità, le richieste di aiuto: occorre sempre porre orecchio per cogliere i segnali deboli, perché a sentire i segnali forti sono bravi tutti».

Da dove viene questa sua attitudine a “captare”?
«Sono un oratoriano, innamorato del pensiero e delle parole di don Bosco, se ll male cresce è perché non badiamo ai giovani e ai bisognosi, perché abbiamo eliminato l’apprendistato del mestiere, io stesso sono stato ragazzo di bottega in una sartoria, negli anni ’50 si faceva così».

II gruppo Megamark ha 500 punti vendita e 5.500 addetti. È di famiglia abbiente?
«Per nulla, a tavola sedevamo in dieci, ma nelle difficoltà ci sono la forgiatura, l’etica e la determinazione. Ai miei tempi molti se ne andavano dalla Puglia, ma mio padre, che era un uomo dinamico, alla fine della guerra dismise la divisa di finanziere, e tornò ad Andria per aprire un bazar».

Che si chiamava?
«”Bazar”. Cercava un nome d’impatto, innovativo e semplice, era una specie di ipermercato in miniatura, avevamo di tutto. Lui confidava in un Muro migliore, e io, che ero nato nel ’44, nel bazar passavo di braccia in braccia delle clienti, che mi facevano anche da balie in una comunità che aveva vivo il senso del dare e dell’avere, fianco a fianco. Da G è nato tutto, solo che a un certo punto mi accorsi che i 114 metri quadri del negozio non mi bastavano più. Per aiutare mio padre non avevo continuato gli studi, ma era stata la lettura a formarmi, lì trovavo la mia pace interiore».

Si ricorda il primo libro letto?
«Non rida, il Codice civile, ma perché, il negozio, come lo si intendeva allora, era un punto di riferimento, dovevamo essere venditori, collaboratori, consulenti, spesso anche legali. Poi lessi Guerra e pace, ma anche Ventimila leghe sotto i mari, così si conosceva il mondo, viaggiavi stando fermo, mica c’era il web e clicca di qui e clicca di là, allora si doveva leggere».

Ecco, leggere, e arriviamo al Premio Megamark coni Dialoghi di Trani: da dove le è venuta l’idea?
«Dal liquore “Strega” di Benevento, vedendolo un giorno ho pensato a quello che aveva generato, e mi son detto, come spesso capita a noi gente del Sud, perché gli altri sì e io no? Così lo proposi a Rosanna Gaeta, perché ne sentivo proprio la carenza e insieme l’abbiamo fatto. Ammetto che non è la cosa più semplice del mondo, occorre molta caparbietà, non è mica facile far venire voglia di leggere, ma ogni libro è un mattonino che ti aiuta a costruire, io questo lo so».

Perché si prodiga sempre?
«Sono convinto che benessere debba generare altro benessere, trovo giusto distribuire parte del ricavo, perché il territorio lo merita e perché è un bel vivere per te e per tutti, se lo fai la tua lampadina, ff tuo piccolo faro sulla fronte non si spegne».

Un passo del Vangelo lo dice: `Voi siete la luce del mondo”.
«Non ho inventato niente».

Ci ricorda perché è nata la Fondazione?
«Mio fratello Nicola era un disabile, aveva bisogno di costante aiuto, tendeva la sua mano, così nel percorso che il Signore mi ha concesso, ho voluto essere accanto ai dipendenti bisognosi. Vent’anni fa andavano molto i viaggi della speranza, chi si ammalava viveva la doppia beffa del male e del danno economico per le cure. Allora pensai che una fondazione se ne poteva far carico, e la creai; in questo non sono mai stato solo, mio figlio, i miei collaboratori: quando semini non è detto che la pianta attecchisca. Ma quando cresce, ti fa guardare a quello che hai fatto, avendo un orizzonte davanti».

Piantare e raccogliere: la filiera etica.
«È un discorso che riguarda la responsabilità sociale rispetto a un prodotto consegnato, come dice Yvan Sagnet, con le lacrime dei raccoglitori, se fai finta di niente allora anche tu sei complice. La gente deve capire che può essere parte attiva della catena di montaggio e non di smontaggio dell’umanità».

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