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«Lavoro e figli, un’impresa possibile»

16.02.2023

É la temperanza intesa come equilibrio, nel lavoro e nella vita privata, la virtù decisiva per Stefania Brancaccio, imprenditrice e vicepresidente di Coelmo, azienda che produce gruppi elettrogeni industriali e marini ad Acerra, in provincia di Napoli, e li esporta in tutto il mondo. «È la qualità per eccellenza di un materiale che se è temperato sopporta il caldo e il freddo o di un carattere che sa accogliere ed essere paziente. L’equilibrio b ciò che dovrebbe connotare particolarmente la vita delle donne chiamate a essere lavoratrici e madri, due aspetti fondamentali della nostra esistenza che devono poter convivere». Cavaliere del lavoro dal 2009 per aver favorito le pari opportunità per le donne in azienda, cattolica fervente illuminata dalla dottrina sociale della Chiesa, da sempre si batte per questi temi; «più che per le quote rosa, per le aliquote rosa. Può lo Stato prelevare il 35% dello stipendio delle dipendenti e non dare i nidi gratis?».

Brancaccio è molto lucida: «Io ho tre figli e guido una realtà di 146 dipendenti. Ma non posso essere un modello per le giovani lavoratrici perché sono entrata qui nel ’73 con una laurea in Filosofia come “la moglie del padrone”». Quando la incontriamo, infatti, ha chiesto alle sue dipendenti di essere presenti: «Sono loro le vere eroine. Chiamate a lavorare in un ambiente maschile come quello metalmeccanico, in una zona industriale alle porte di Napoli dalle 8.30 alle 17 senza nessun collegamento alla città che non sia l’automobile, senza nessun servizio (qui intorno non c’è nemmeno un supermercato) e con i figli piccoli a casa. Io avevo il privilegio più grande, la libertà. Ecco perché alle mamme-lavoratrici di oggi dico che va fatto il dono per eccellenza: il tempo». Lo sa bene Roberta, 44 anni, impiegata e mamma di tre figli; «le giornate per noi madri durano 24 ore. Il giorno prima programmi fino alla sera dopo perché non puoi permetterti di non sapere cosa mangeranno i tuoi figli a cena o chi li accompagnerà a calcetto».

Lei è in Coelmo dal 2003, una vita: «Qui mi sono sposata e ho avuto i miei figli. Non nego di aver avuto paura di annunciare la prima gravidanza, la seconda e non vi dico la terza… nonostante l’ambiente accogliente e l’attenzione che ci viene data. Quello che conta in Coelmo non è la quantità di tempo che dedichi al tuo lavoro, ma la qualità. Mettici poi che noi donne riusciamo a fare più cose insieme… eppure io torno a casa affaticata e arrivo qui affaticata. La conciliazione non è facile». Melania, 36 anni, nemmeno ci prova: «Sono stata mollata troppo tempo alle baby-sitter da bambina per decidere di fare un figlio». Nunzia, 40, esce da due relazioni di dieci anni l’una: «Oggi sono single, ma anche da fidanzata ho sempre pensato prima ad assestarmi e poi al progetto di famiglia. Certo c’è chi, come mio fratello e mia cognata, sceglie di fare una follia: loro hanno avuto una figlia nonostante lei non lavori». Poi c’è Ines, mamma di due bambini di 7 anni e 18 mesi, musulmana: «Sono in azienda da 18 anni, qui c’è il massimo rispetto di mamma, ma anche dei miei precetti religiosi». Infine, Stefania, trentenne che sta finendo i due anni di prova: «E io ho anche la fortuna di avere un compagno con un bel lavoro. Ma alla mia età ti senti ancora giovane e immatura; quel che ti circonda sembra dirti che non hai fatto abbastanza per meritare una famiglia». Follia, paura, merito: per Brancaccio sono parole inaccettabili riferite alla maternità; «ecco perché dico che più del welfare, dei voucher, dei nidi gratuiti, degli assegni familiari, una manna dal cielo per carità, le donne hanno bisogno di libertà, di poter gestire gli impegni familiari di concerto con quelli lavorativi e non in opposizione. Di poter andare anche dal parrucchiere e dall’estetista, perché no. Qui in azienda questo atteggiamento di cura nei confronti del benessere delle persone lo abbiamo ribattezzato We.care come WElfare CAntiere da REalizzare per un’azienda amica delle persone che ci lavorano. In cui conciliare vita e lavoro, con un’attenzione psicofisica alle persone; creando spazi dedicati all’ascolto».

Ed ecco perché Brancaccio non può tollerare le neonate certificazioni: «La 125 per esempio; ma può una certificazione assolvere al benessere integrale di una donna? Sarà meglio ripartire dall’educazione e dalla formazione perché i colleghi uomini per primi quando una collega si allontana dal posto di lavoro o arriva un po’ dopo imparino a non alzare gli occhi al cielo? Se non ce lo facciamo con l’educazione allora io questo percorso lo faccio con la formazione on job, creo dei tavoli di confronto e lavoro sulle pari opportunità in azienda». A gestire le risorse umane in Coelmo c’è la nuora, Federica Marzullo. Avvocato di professione che a sua volta per conciliare la famiglia, tre figli e il lavoro ha scelto di entrare in azienda: «Qui cerchiamo di fare il possibile per le dipendenti. Una vicinanza e una disponibilità che nascono dalla condivisione delle stesse esigenze». Merito dell’impostazione che ha dato Brancaccio che fa, per quel che può, quel che non fa lo Stato: «Se il figlio piange lascio uscire senza strisciare il cartellino», afferma l’imprenditrice; «può quella donna restare qui in azienda? Sarebbe giusto penalizzarla facendole perdere ore di lavoro o stipendio? Lo Stato è il primo nemico della famiglia, delle mamme. Smettiamo di dire che sono le donne ad avere paura e aiutiamole a vivere la maternità nel miglior modo possibile. Occuparsi dei figli e realizzarsi sul lavoro non sono strade inconciliabili. Certo le realtà familiari e lavorative hanno logiche che sembrano opposte; dovremmo allora lavorare per riuscire a ottenere profonde trasformazioni sociali in Italia. Per far capire che la maternità è un valore aggiunto; è una palestra dove ci si allena per sviluppare competenze ed energie. È il miglior master in gestione aziendale».

Provocata, infine, sulla piaga degli stipendi bassi ai giovani, risponde senza esitazioni: «Qui da noi vengono assunti con il contratto nazionale del lavoro. Entrano al livello giusto per il titolo di studio». Di tutte le altre “furfanterie” non vuol parlare: «Noi siamo ancora legati a una contrattazione nazionale di livello, discutibile per certi versi a sua volta perché dovrebbe andare nella direzione della premialità. Ma l’essere blindati dai Cnl dà sicurezza, definisce una soglia di legge sotto la quale non si può andare. Le trattative “private” offendono talvolta la dignità del lavoro e avviliscono le prospettive future dei nostri ragazzi». •

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Articolo pubblicato il 19 febbraio da Famiglia Cristiana

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