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De Meo: Disegnavo macchinine, oggi dirigo la Renault

11.01.2023

I patron di Renault Group riceve il Corriere nell’edificio Pierre Dreyfus, il palazzo di mattoni beige a Boulogne Billancourt dove è nato il marchio della Losanga, uno dei simboli dell’industria francese. A guidare la casa automobilistica e i suoi in mila collaboratori in 38 Paesi è — per la prima volta nella storia — un non francese, il milanese di origini pugliesi Luca de Meo, 55 anni, laurea in Bocconi e car guy (appassionato di auto) da quando era bambino e disegnava macchine. Davanti all’ufficio di de Meo, in giardino, c’è ancora la capanna dove nel 1898 il meccanico Louis Renault aggiunse la quarta ruota a un triciclo a motore e fabbricò la prima vettura Renault (nel 2021 ne sono state vendute due milioni e 700 mila nel mondo).

«La mia vita parigina? Non ho una vita», scherza de Meo. Troppo lavoro. «Mi piace la zona di rue du Temple, nel Marais, ma non ho mai tempo di fare una passeggiata, e comunque sarebbe con la scorta». De Meo ha un rapporto speciale con Parigi e la lingua francese: «Sono arrivato qui perla prima volta all’inizio degli anni Novanta con la mia fidanzata ed ex compagna di università che poi è diventata mia moglie. Eravamo neanche trentenni a Parigi, un sogno». All’epoca il primo incarico in Renault, poi Toyota, Fiat, Volkswagen, Audi, Seat e infine il ritorno a Boulogne Billancourt nel zozo per prendere in mano l’azienda. De Meo guida un colosso globale il cui primo azionista è lo Stato francese, che di solito non fa sconti sugli aspetti nazional-simbolici. L’essere italiano è un tema? «No, Renault è ormai un gruppo internazionale che fa parte di un’alleanza con Nissan e la lingua di lavoro è soprattutto l’inglese. lo poi parlo anche francese». lin francese in effetti perfetto, «perché mio padre progettava infrastrutture in tanti continenti, abbiamo girato una dozzina di Paesi e fino all’adolescenza ho studiato nella rete delle scuole francesi e poi inglesi».

Il patron di Renault è sicuramente cosmopolita, ma all’occhiello della giacca esibisce la rosetta tricolore di Cavaliere del lavoro, l’onorificenza che il presidente Sergio Mattarella gli ha conferito nel maggio scorso, unico non residente in Italia. «La porto con orgoglio perché è un segno del legame con il mio eue. Noi “expat” rischiamo díp ‘fiere le radici, alle quali io invece tengo molto». II 29 dicembre poi è arrivata anche la Legion d’onore per decreto del presidente Macron. De Meo vive, come negli ?pni Novanta, a Passy, tranquillo dell’Ovest «Ovunque vada per amb tarmi ci metto 15 giorni: il periodo necessario per trovare il bar che fa il caffè buono e un ristorante che mi giace». Tutto il tempo o quasi e dedicato al lavoro, anzi, all’industria. È una precisazione importante, perché «io sono un’industriale e l’industria è dura, una fatica di ogni giorno».

Negli ultimi decenni l’Occidente ha conosciuto il passaggio verso un’economia finanziaria, immateriale. E lo scrittore francese vivente più conosciuto, Michel Houellebecq, ha dedicato il romanzo La carta e il territorio all’idea di una Francia e di un’Europa ormai prive di fabbriche, ridotte a parco giochi per ricchi stranieri in cerca di gastronomia e savoir vivre. Gli sforzi di de Meo sono invece diretti a smentire questa profezia. «Non esiste un Paese forte senza un’industria forte, a meno che tu non sia una piattaforma finanziaria come Singapore. L’economia dematerializzata è un’illusione, i problemi non si risolvono solo a colpi di clic. Durante la pandemia servivano le mascherine, ma in Europa non eravamo più in grado di produrle». Qui viene fuori il de Meo car guy, appassionato di automobili per motivi sentimentali ma anche e soprattutto razionali. Dal primo gennaio 2023 è il presidente dell’Associazione europea dei costruttori di auto (Acea), un decennio dopo Sergio Marchionne e al posto del tedesco Oliver Zipse (Bmw). «Sono convinto che l’industria investimenti in ricerca e sviluppo dipendono dall’industria automobilistica. Poi, per ogni posto di lavoro che creo all’interno dell’azienda, ne nascono sei o sette fuori, come indotto. Il contributo dell’auto è decisivo in termini di innovazione e valore aggiunto, e noi europei possiamo eccellere nel settore premium, il più importante».

La centralità dell’auto è un tema delicato, in tempi di crisi climatica ed energetica. «Per questo bisogna essere realistici. Non può esserci un solo “piano A” deciso dai governi, le soluzioni tecniche possono essere tante e noi industriali dobbiamo essere lasciati liberi di esplorarle». C’è chi, soprattutto fra i giovani, pensa a un superamento dell’auto. «Lo capisco e in certi contesti va benissimo, ottimo il monopattino se vivi in boulevard Saint-Germain e devi andare a lavorare in piace de la Concorde, qualche centinaio di metri più in là. Il discorso cambia per chi deve spostarsi tra Piacenza e Milano, per esempio». La soluzione è l’auto elettrica? «Sì, ma bisogna procedere con pragmatismo. Quando ero ancora a Barcellona alla Seat provocai una polemica perché dissi che l’auto elettrica era una rivoluzione di destra, cioè riservata a chi ha i soldi. 11 fatto è che le auto elettriche per adesso costano molto, e non tutti possono permettersele. Comunque noi industriali dell’auto stiamo investendo tantissimo, i governi dovrebbero stare al nostro passo ma mi pare siano indietro: siamo più avanti con le auto elettriche che con le colonnine di ricarica».

L’industriale globale de Meo è anche l’anima del festival di musica elettronica «Viva!» di Locorotondo, in provincia di Bari. «La musica è l’altra mia grande passione, ora non ho più tempo ma per una certa fase posso dire di essere stato un esperto». Che cosa pensa dei parigini? Antipatici come vuole il luogo comune? «No, non direi. Direi però che, rispetto agli anni Novanta, Parigi è diventata una città più dura, più affollata, più nervosa». E alla finale dei Mondiali, per chi ha tifato? Francia o Argentina? «Avevo una leggera preferenza per l’Argentina, seguo Messi da quando vivevo a Barcellona. Ma non sono certo tra quelli che tifano per principio contro la Francia. E Mbappé è davvero un fenomeno».

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Articolo pubblicato l’11 gennaio dal Corriere della Sera

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