Civiltà del Lavoro, n. 1/2016 - page 61

RITRATTI
Nel 2001, il “libro verde” della Commissione europea, Pro-
muovere un quadro europeo per la responsabilità sociale
delle imprese, consigliava alle aziende di adottare delle
pratiche che nell’Olivetti, guidata dall’ingegner Adriano,
esistevano da decenni: porre in essere misure per attrar-
re e conservare lavoratori qualificati; effettuare il recluta-
mento della manodopera in forme non discriminatorie; in-
vestire nell’educazione e nella formazione dei dipendenti;
introdurre norme stringenti in tema di salute e sicurezza;
adoperarsi per l’integrazione dell’impresa nella comunità
locale, sostenendone la vita sociale, culturale e familiare.
Adriano Olivetti morì il 27 febbraio 1960 e la famiglia,
su suggerimento dell’Amministratore delegato Giuseppe
Pero, mi incaricò di curare la delicata questione della sua
eredità. Fui molto onorato del fatto che una famiglia del-
la grande borghesia affidasse a un socialista “lombardia-
no” un compito così delicato. (...)
Cinquant’anni dopo, Adriano Olivetti non può essere con-
siderato un imprenditore diverso dagli altri solo per la sua
eccezionale cultura, la sua generosità d’animo, il suo fa-
scino personale. (...)
C’è una critica che sento spesso rivolgere ad Adriano Oli-
vetti: essere egli un personaggio “utopico”.
Il termine “utopia”, che designa ormai un intero filone della
letteratura politica, è anche entrato nel linguaggio corren-
te per definire un progetto impossibile, un sogno ad occhi
aperti; e, “utopista”, si dice di chi vagheggia programmi
astratti, non ha i piedi sulla terra, difetta di senso pratico
e di concretezza. Ma Adriano era tutt’altro.
È vero che il suo pensiero risulta pervaso da una vis reli-
giosa che dà la rotta, che orienta il fine ultimo da perse-
guire. Questo suo generale atteggiamento ideologico non
infirma, tuttavia, la validità delle soluzioni scientifiche che
egli propose. D’altronde, se per utopia si intende lo iato fa-
talmente esistente fra un ideale di riforma e la realtà sot-
tostante – che sembra rifiutare ogni cambiamento – allora
quella di Adriano Olivetti fu certamente una utopia: co-
me quella della società senza classi, o quella della libera
concorrenza. Ma, se per utopia si intende la inservibilità
“attuale” di una tesi, allora non è utopistica l’idea di im-
maginare una struttura che, superando i limiti del capita-
lismo privato, si svolga su un sistema pluralistico di pro-
prietà e di gestione, dove le comunità locali, i lavoratori,
le istituzioni scientifiche possano fare parte della fonda-
zione proprietaria. (...)
“La nostra azienda – sono sempre parole di Adriano Oli-
vetti – crede nei valori spirituali, nei valori della scienza,
crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura,
crede, infine, che gli ideali della giustizia non possano es-
sere estraniati dalle contese ineliminate tra capitale e la-
voro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divi-
na, nella sua possibiltà di elevazione e di riscatto. I nostri
stabilimenti sono concepiti affinché l’uomo trovi, nel suo
posto di lavoro, uno strumento della sua dignità e non un
congegno di sofferenza, perché rendere umano il lavoro
può apparire una espressione retorica se letta o ripetuta
distrattamente nel corso di una conferenza: lo è molto di
meno, e si colma invece di una severa verità, per coloro
ai quali sia toccato il destino di poter intervenire a modi-
ficare il futuro di migliaia di altre persone. E chi ha avu-
to questo destino deve anche adoperarsi per far sì che la
potenza della fabbrica sia rivolta – oltre ai fini del benes-
sere – anche al progresso dell’ambiente. Poiché a nessu-
no di noi deve sfuggire un solo istante che non è possibi-
le creare un’isola di civiltà più elevata e trovare intorno a
noi ignoranza, e miseria e disoccupazione”. (...)
Con questo discorso ai lavoratori della sua impresa, Adriano
Olivetti lanciava un messaggio che si può facilmente defini-
re “utopistico”. Ma quanti operai, quanti ingegneri e quan-
ti tecnici vorrebbero sentirlo ripetere, oggi più che mai!
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