Civiltà del Lavoro, n. 2/2021

26 Civiltà del Lavoro marzo • aprile 2021 Si tratta dunque di avere una visione, di saper pianifi- care i luoghi della comunità del domani. Lei crede ci sia questa consapevolezza e, nel caso, ha degli esempi cui poter guardare? Più che a livello di realtà nazionali, delle iniziative interes- santi nascono a livello cittadino. Penso a Barcellona, dove si sta lavorando molto con il “gemello digitale”, una tec- nologia che consente di avere la modellizzazione comple- ta della città e sperimentare “in silico” modifiche urbanisti- che per misurarne gli impatti sul traffico o la vivibilità di un quartiere, o anche sul rapporto tra aree determinate di un perimetro cittadino. Cose simili le stanno facendo ad Am- sterdam e, in Italia, a Bologna, per esempio. Le grandi rivoluzioni scientifiche, da Copernico a Dar- win, hanno progressivamente decentrato l’uomo. Lei di- ce che è accaduto lo stesso con Turing e parla di un’an- tropologia eccentrica. In che senso? Trovo molto utile il passaggio sull’antropologia eccentrica, se no finiamo sempre con il ripetere quello che è diventato una specie di ritornello filosofico per cui da Copernico in poi scivoliamo progressivamente verso una periferia: erava- mo al centro del mondo e poi la scienza ci spiega che non lo siamo più. È accaduto con l‘astronomia, con la biologia, con la psicanalisi e ora anche con l’informatica perché Tu- ring ha chiarito che nemmeno nella sfera delle informazio- ni siamo unici. E dunque? La gente, tra cui moltissimi stu- diosi, si ferma qui. E invece questo è un punto di inizio, da qui nasce la necessità di pensare un’antropologia eccentri- ca, un’autocomprensione che non ci scopra più al centro di una visione. Pensi al dibattito sull’intelligenza artificiale. Anche l’intelligenza artificiale è antropocentrica? Potrebbe e nel senso peggiore. Siccome non possiamo più autocomprenderci come soggetti unici si tende a spostare il criterio di riferimento sulle emozioni e sull’empatia, dove ci riconosciamo unici. Mi chiedo se non sia il caso smetterla di utilizzare questi trucchi e cominciare piuttosto a elabora- re un'antropologia che sia realmente non antropocentrica, in cui non si parta dalla domanda su chi sono io per capire poi come relazionarmi agli altri ma in cui accada il contra- rio. Non si tratta di cose nuovissime, il movimento ecolo- gista, quello femminista e poi anche le etiche applicate, l’e- tica medica e la business ethics ragionano così, sono tutti movimenti che vedono uno spostamento da chi compie l’azione a chi l’azione la riceve. Una nuova antropologia eccentrica potrebbe favorire un nuovo “umanesimo dell’altro uomo”, per dirla con Emmanuel Lévinas? Bene, sì lo credo. Tra colleghi c’è chi dice che nei sistemi di intelligenza artificiale occorre inserire le virtù aristoteli- che per umanizzarli, quando sento queste cose smetto di ascoltare. Lei capisce, si pensa di fondare un’etica digitale facendo lo stesso gioco di sempre, mettendo al centro le nostre esigenze finendo così per compiere non solo un’o- perazione anacronistica ma un un’operazione logicamen- te infondata. L’errore è non capire che siamo di fronte alla necessità di abbandonare questo centralismo, l’io prima del tu, per riprendere Lévinas, e cominciare a sviluppare un’e- tica del paziente, di chi subisce l’azione, al posto dell’etica dell’agente. Sarò banale, penso all’etica dei genitori, degli insegnanti, degli infermieri e dei medici. Penso a un'etica del servizio e della cura, niente di strano, la si può anche intravedere nella quotidianità quando parlia- mo di customer service. Il passo successivo è quello di de- centralizzare sia l’agente sia il paziente e mettere al centro la relazione tra loro. Noi l’io o il tu ma il noi che ci unisce. L’etica del paziente e dell’altro mi fa pensare a un altro passaggio significativo presente nei suoi ultimi libri, quan- do parla di monismo relazionale. Nell’infosfera non sia- mo più esistenze che pre-esistono le une alle altre, ma nodi di un’unica rete. Pensi al tema della cittadinanza, a tutto il dibattito sullo ius soli. Partiamo subito parlando di categorie di persone da considerare come cittadini o meno. Una traiettoria completamente diversa potrebbe essere quella di dibattere sulla cittadinanza come un principio che ci unisce nella misura in cui si è partecipi di una relazione. Si capirebbero tante cose su chi sta fuori e chi sta dentro questa relazione, chi la vive appieno e chi in modo solo li- mitato. Non siamo più in un mondo aristotelico-newtonia- no, in cui ci sono le cose e poi tutto il resto deriva da esse, ma in un mondo in cui sono le relazioni a determinare la consistenza delle cose. PRIMO PIANO

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