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Intervista ad Andrea Illy: “Con il clima che cambia metà delle piantagioni non è più utilizzabile”

23.08.2023

Aricolo pubblicato il 23 agosto 2023 da “La Repubblica”

 

Un caffe che costituisca un “prodotto esperienziale” ma che arrivi anche da terreni e coltivatori che non impoveriscono l’ambiente, ma anzi applicano le tecniche di agricoltura rigenerativa. È la sfida che da qualche anno si è dato Andrea Illy, presidente dell’azienda che porta il nome di famiglia, fondata nel 1933 a Trieste da suo nonno Francesco. E presidente della Regenerative Society Foundation, costituita nel 2020 insieme all’economista Jeffrey D. Sachs per sostenere la decarbonizzazione.

Il cambiamento dimatico danneggia anche le piantagioni di caffè. Come lo state affrontando?

«Il caffè può crescere solo nella cosiddetta fascia tropicale, con certe temperature e una piovosità media. Ogni volta che queste condizioni climatiche vengono alterate la produzione entra in sofferenza. Secondo uno studio condotto nel 2015 dalla Columbia University entro il 2050 il 50% delle terre attualmente coltivabili a caffè non saranno più utilizzabili. Non potendo aumentare le terre coltivabili dobbiamo ricorrere ad altri mezzi».

Perché le terre coltivabili non possono aumentare?

«Abbiamo già raggiunto la saturazione dei terreni agricoli, che occupano il 50% delle terre abitabili. Un secolo fa erano il 25%, due secoli fa la metà. Coltiviamo già oltre 5 miliardi di ettari di terra, e abbiamo già operato massicce deforestazioni. Adesso si parla giustamente della tutela della Foresta Amazzonica, ma pochi sanno che esisteva la Foresta Atlantica, ancora più grande, e che ha subìto un disboscamento del 92%».

E allora, cosa ci rimane per venire incontro alla maggiore domanda ci caffé, e di altri prodotti?

«Il caffé è una questione minore, occupa appena due milioni di ettari nel mondo. Però è anche vero che la domanda è cambiata, perché non viene più considerato una sorta di commodity, una bevanda che si consuma per via della caffeina, per restare svegli insomma. Adesso lo si degusta, viene assaporato come il vino, e quindi per ottenere un prodotto esperienziale di questo tipo, che il consumatore possa apprezzare, servono forniture che arrivano da aree e anche da Paesi diversi. Le vie sono due : migliorare le pratiche agronomiche rigenerative e aumentare la biodiversità, creando cultivar particolarmente resistenti ai cambiamenti climatici, dalle alluvioni al caldo eccessivo».

E si stanno già ottenendo risultati?

«Per quanto riguarda la coltivazione di specie più robuste e adatte ai cambiamenti climatici, la Colombia è il Paese che ha reagito in maniera più poderosa. Grazie alle nuove varietà più resistenti sperimentate puntava a raggiungere la produzione annua di 16 milioni di sacchi di caffè, dai 12 precedenti. Ma poi è arrivato il Covid, e i cambiamenti climatici sono peggiorati: è come avere sempre il vento in faccia».

E dal punto di vista delle tecniche agricole?

«Sono felice di dirle che il caffè è avanti: dopo l’anno sabbatico che io mi presi nel 2018 per studiare le questioni legate alla decarbonizzazione, il centro dell’attenzione degli studi agronomici si è spostato dalle piante al suolo, e adesso il 75% dei produttori che ci vende il caffè ha adottato pratiche rigenerative. E vale per altri nostri colleghi nell’industria: sta diventando un trend di mercato positivo».

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