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Arte e cultura, Pavia forma i manager. Abete: «Serve mentalità d’impresa»

17.04.2023

Conservare e tutelare il patrimonio artistico è un dovere, ma non basta. I beni culturali devono essere valorizzati ed “esportati” perché rimanere fermi ad aspettare i turisti non basta più. E per farlo è necessario che pubblico e privato collaborino sempre di più. Parte da questi presupposti Luigi Abete, presidente dell’Associazione Imprese Culturali e Creative di Confindustria che, lunedì, sarà a Pavia nell’aula Volta dell’Università a inaugurare il master in “gestione innovativa dell’arte, finanza, marketing e strategia”, evento inserito con Assolombarda nell’ambito delle celebrazioni di “Pavia capitale della cultura d’impresa”. Un master, destinato a chi ha già una laurea triennale, pensato per formare i nuovi “manager della cultura”.

Presidente Abete, perché servono dei manager della cultura?

«Il concetto che la cultura e i beni culturali siano un bene in sé è ormai assodato. Ora però è necessario che questa convinzione sia declinata in termini operativi. Il patrimonio culturale italiano deve essere valorizzato con una partnership tra pubblico e privato sempre più forte. E per imboccare questa strada non basta affidarsi alla mentalità burocratica: servono manager preparati».

Quali sono le caratteristiche che deve avere uno studente che aspira a diventare manager culturale?

«È necessario che abbia una cultura di impresa perché è questo che serve a una moderna gestione dei beni culturali ed artistici. Il pubblico utilizza una struttura fissa, il privato utilizza il mercato, quindi ha maggiore flessibilità dall’utilizzo di questi fattori variabili e ne trae un profitto. Il fine però è lo stesso: valorizzare, garantendo la tutela, il bene pubblico. La parte privata, come dimostra l’impegno dell’associazione che prevedo e come dimostra anche il master organizzato dall’università di Pavia, è già al lavoro. Ora sta al pubblico ascoltarci e imboccare un percorso virtuoso».

Quali sono i vantaggi di una maggior collaborazione tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale?

«Utilizzando solo la strumentazione pubblica, si riduce il numero di obiettivi raggiungibili visto che le risorse pubbliche sono limitate e che negli anni sono andate diminuendo. I fondi del Pnrr hanno consentito di destinare risorse pubbliche aggiuntive a determinati obiettivi, ma si tratta di risorse straordinarie. Se vogliamo in futuro mantenere elevato e, anzi, far crescente il numero di utenti dei beni culturali dobbiamo utilizzare, accanto al pubblico, il mercato. Il mercato non è alternativo al pubblico, né il pubblico è alternativo al mercato: il mercato consente di raggiungere un numero di obiettivi maggiori. Oggi ci sono centinaia di siti abbandonati, in posti bellissimi, perché mancano le risorse per le manutenzioni straordinarie e le ristrutturazioni e perfino per andarle ad aprire o a pulire. Su questo occorrere concentrarsi. Su questo e sull’ampliamento dell’offerta come già, trent’anni fa, si doveva iniziare a fare con la legge Ronchey».

In che senso ci si dovrebbe concentrare sull’ampliamento dell’offerta?

«Dopo la pandemia abbiamo visto dati molto confortanti sull’accesso ai monumenti e alle istituzioni culturali italiane. Ora però non possiamo restare fermi perché i numeri sarebbero destinati a scendere. Aspettare i turisti non basta: abbiamo bisogno di manager della cultura che sappiano esportare la filiera della cultura italiana anche all’estero. E per farlo è necessario avere una mentalità d’impresa e utilizzare le regole del mercato, le sole che possono esportare il capitale culturale italiano. E le uniche che possono valorizzare un patrimonio molto più ricco e diffuso rispetto al Colosseo o ai monumenti più noti. E una città ricca di cultura e bellezza come Pavia lo sa bene».

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Articolo pubblicato il 15 aprile da La Provincia

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