Civiltà del Lavoro, n. 3/2025

9 ncassare 2.800 miliardi di dollari in 10 anni: è questo l’obiettivo dei dazi di Trump rivelato dal segretario al Tesoro Scott Bessent. Una cifra enorme, che dovrebbe servire a finanziare la legge di bilancio appena approvata dal Congresso, il “Big Beautiful Bill”, che riduce le tasse alle imprese e ai redditi medio alti e rischia di aggravare di tremila miliardi in 10 anni il deficit pubblico americano che è già oltre il 6%. Insomma, i dazi servono a Trump non tanto per riequilibrare la bilancia commerciale, che considerando i servizi che acquistiamo dagli Usa è già quasi in pareggio, ma per incassare dollari sonanti facendo credere agli americani che a pagare saranno gli altri paesi, “scrocconi” e “parassiti”, che per decenni si sono arricchiti alle spalle degli Usa. È una narrazione del tutto falsa, perché alla fine i dazi li pagheranno soprattutto gli americani che subiranno prezzi più alti per i loro consumi (infatti l’inflazione è già in crescita), difficoltà di approvvigionamento di materie e componenti per la loro industria (dalle terre rare ai microchip), e stanno già patendo la sfiducia dei mercati finanziari nei confronti del dollaro in calo e dei loro titoli di Stato. Ma per ora questa narrazione consente a Trump di sbandierare forti aumenti di incassi dai dazi, per decine di miliardi. Il Budget Lab dell’Università di Yale ha calcolato che quando il Presidente è entrato in carica l’aliquota media dei dazi americani era del 2,4% mentre a giugno ha toccato il 15,6%. A meno di forti contestazioni da parte dell’industria americana e della sua base elettorale Maga (Make America Great Again), è dunque probabile che Trump procederà nell’imposizione dei suoi dazi minacciando per di più di aumentarli se i Paesi colpiti reagiranno con contro-dazi. Al di là degli auspici e della prudenza della maggioranza dei paesi colpiti, lo spettro della guerra commerciale è dunque reale, anche per i paesi alleati (o ex alleati) come il Giappone, la Corea del Sud e noi europei, che esportiamo in Usa merci per 530 miliardi (e noi italiani per 64 miliardi). Proprio per evitare una guerra commerciale con dazi e contro-dazi che si avvitino in una spirale senza fine, alla fine la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha accettato i dazi al 15% proposti da Trump. L’accordo, siglato in Scozia il 28 luglio, è stato da molti considerato negativo perché aumenta del 50% il dazio precedente al 10% (cui va sommata la svalutazione del dollaro del 15% circa) ed è quasi il triplo rispetto al dazio medio del 4,8% che pagavamo prima dell’elezione di Trump. Inoltre, la Ue si è impegnata ad acquistare dagli Usa gas liquido e petrolio per 750 miliardi in tre anni, armi americane e ad investire in Usa 600 miliardi. Si poteva ottenere di più? Una strada poteva essere quella di allargare il tavolo delle trattative ad altre materie sensibili per gli Usa: dall’impegno ad aumentare al 5% le spese per la difesa, all’esenzione dalla “minimum global tax” concessa alle multinazionali americane. È vero che gli Stati europei in sede Nato e Ocse avevano già assunto questi impegni, ma anche nella speranza di ammorbidire le pretese di Trump sui dazi. Si potevano anche ipotizzare aggravi di tasse sulle big tech americane fino ad arrivare a misure estreme, ipotizzate dal governo francese, come il divieto alle imprese Usa di partecipare a gare europee o l’imposizione di un tetto ai trasferimenti finanziari europei verso banche e fondi d’investimento americani. I Civiltà del Lavoro | giugno • luglio 2025 Come affrontare le bufere geopolitiche L’EUROPA TRA DAZI E BILANCIO EDITORIALE

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