Civiltà del Lavoro, n. 1/2021

29 Civiltà del Lavoro gennaio • febbraio 2021 Giuseppe Bono di fare presto e bene, per restituire alla memoria delle vit- time, a Genova e al Paese una infrastruttura nevralgica ma anche un simbolo. “Gli eroi del ponte” - come spesso so- no stati definiti – erano consapevoli di lasciare un segno e questo ha dato loro la forza di andare avanti anche quando il resto d’Italia era fermo. C’era la consapevolezza di parte- cipare alla costruzione di qualcosa che andava oltre il pro- getto, oltre la struttura, a Genova si stava riscrivendo un piccolo pezzo di storia collettiva, si stava ricucendo una fe- rita che aveva lacerato non solo la città, ma tutto il Paese. L’Italia ha mostrato al resto del mondo che ha le capaci- tà per costruire bene, in sicurezza e nei tempi prefissa- ti. Cosa fare perché quest’opera sia considerata lo stan- dard e non l’eccezione? Il miracolo non è stato fare bene il ponte, ma farlo anche rapidamente, senza per questo venir meno agli standard di qualità e di sicurezza. Quello che ai più è sembrato straor- dinario, per Fincantieri è ordinario. La costruzione di navi non lascia spazio nemmeno a un gior- no di ritardo. È stato necessario semplificare le procedu- re ordinarie e affidarsi a un gruppo solido come il nostro, con 7mila navi realizzate in oltre 230 anni di storia, leader mondiale nel comparto delle navi ad alto valore aggiunto, che ha rilevato le migliori eccellenze anche in altri settori e vanta oggi un patrimonio di risorse gestionali, ingegneristi- che e tecnologiche trasversali in grado di sostenere questa e altre responsabilità. Questi standard operativi traslati nella realizzazione del nuovo viadotto hanno fatto gridare al miracolo in un Paese abituato ad aspettare per il compimento di opere strategi- che, "miracolo" rilevato anche dalla grande stampa estera. Lei ha definito il Ponte San Giorgio un “modello per l’I- talia”. Quello che negli ultimi mesi è accaduto sul fronte del Recovery Fund sembra tuttavia suggerire che questo modello fa fatica ad affermarsi. È così? Il “modello per l’Italia” è il modus operandi che da sempre Fincantieri esprime nella gestione delle sue commesse, e che si può riassumere nella capacità di gestione della com- plessità e nella garanzia di tempi certi. Un modello esporta- bile e sostenibile. Oggi, però, per rendere questo modello prassi in Italia serve una vera e propria rivoluzione coper- nicana in termini di mentalità e approccio, che coinvolga tutti gli attori, dai committenti ai lavoratori. Un cambio di passo che riguarda tutto il sistema. Il problema della crescita non ha a che fare con la crisi, dura almeno da 30 anni. La complessità della macchina amministrativa non rischia di essere un ulteriore deter- rente all’imprenditorialità e quindi al benessere del Paese? Questo è un Paese in cui nessuno è abituato a fare squa- dra ed è questa una delle cause di questo stato di mancata crescita che perdura da decenni. Il messaggio da lanciare è che è giunto il momento di avviare un nuovo processo cul- turale. Un processo che sarà possibile realizzare se sapre- mo fare appello a quel senso di responsabilità di cui parlavo prima. L’Italia possiede nel proprio DNA il know-how neces- sario per un nuovo Rinascimento. Servono poche azioni, decise, ferme, incentrate a correggere distorsioni peraltro non esclusivamente italiane: tempi intollerabili della giusti- zia, burocrazia fine a se stessa, disparità territoriali che si sono acuite ancor più, fragilità infrastrutturale, scarsa con- L’Italia possiede nel proprio Dna il know-how necessario per un nuovo Rinascimento. Servono poche azioni incentrate a correggere distorsioni peraltro non esclusivamente italiane: tempi intollerabili della giustizia, burocrazia fine a se stessa, disincentivazione della capacità di intraprendere PRIMO PIANO

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