Civiltà del Lavoro, n. 3/2020

22 Civiltà del Lavoro giugno • luglio 2020 PRIMO PIANO la serietà, l’affidabilità o la competenza. Nessuno di noi affiderebbe un’edicola da gestire a Salvini o Di Maio eppu- re gli affidiamo lo Stato. Perché non lo sentiamo come una cosa nostra. Siamo intrappolati da decenni in un conflit- to ideo-logico del tutto inventato, in cui ognuno di noi si schiera in una squadra, affronta quella opposta e pensa che la politica sia questa. La conquista del consenso e fermare “gli altri”. Ma la stessa etimologia della parola “politica” in- dica un significato opposto: l’arte di governare. Troppo facile, però, dare la colpa alla classe politica; que- ste persone – che non hanno mai gestito nulla – non si so- no presentate da sole al ministero, ce le abbiamo mandate noi. Il nostro rapporto con la politica è uno dei tanti “mo- stri” che tiene in ostaggio l’Italia di cui parlo nel mio ultimo libro. È ora di guardarli in faccia e sconfiggerli. Finché non pretenderemo competenza e serietà da chi vo- tiamo, non possiamo aspettarci molto di più. Tutti da decenni parlano di semplificazione amministrativa. Secondo lei quali sarebbero le cose più urgenti da fare? Le cose da fare si sanno, appunto, da decenni. Penso all’u- niformazione delle normative ambientali a livello naziona- le attraverso accordi con le Regioni, la semplificazione del Codice Appalti, l’eliminazione del gold plating (non dobbia- mo andare oltre le prescrizioni della normativa europea in materia di soglie per affidamenti diretti), una corsia prefe- renziale per la realizzazione delle opere prioritarie e stra- tegiche, una profonda riforma del fisco e un taglio degli adempimenti burocratici. Ma, anche qui, sono cose che si dicono in tutti i convegni. Non si può dare la colpa di tutto quello che non funziona alla burocrazia. Vi racconto la mia esperienza: quando sono arrivato al mi- nistero dello Sviluppo economico tutti i miei amici impren- ditori mi hanno avvisato che non sarei riuscito a incidere, che la burocrazia mi avrebbe impedito di agire. Bene, non sta a me giudicare se ho fatto bene o male, ma sono riusci- to a fare tutto quello che volevo. Lavorando. Ascoltando le istanze delle categorie a cui i provvedimenti erano destina- ti, stando dietro ai dossier, monitorando l’attuazione e i ri- sultati delle misure. Stando insomma seduto sulla sedia, a lavorare, partecipando a riunioni con i direttori. Ho l’impressione che molti politici pensino che questo non faccia parte del loro lavoro, che basti tagliare nastri e an- nunciare provvedimenti come se poi funzionassero da so- li. È quello che è successo con molte delle soluzioni scelte per rispondere alla crisi. Provvedimenti che non funziona- no non tanto per colpa della macchina burocratica, ma per- ché sono pensati male. Torniamo al punto di prima: la colpa è solo in parte della politica perché ce li abbiamo mandati noi elettori, senza pretendere poi risultati. Lei ha presentato una cinquantina di proposte per il Re- covery Plan italiano. Quali sono le più importanti? Cinquantatré per l’esattezza, nei giorni in cui andava in on- da la sceneggiata degli “Stati Generali”, per riportare la di- scussione su cose concrete. Sono tutte attuabili immediata- mente, e divise in interventi generali, validi per tutti i settori, Siamo intrappolati da decenni in un con itto ideologico del tutto inventato, interessati alla conquista del consenso e a fermare “gli altri”. Ma la “politica” è un’altra cosa, è l’arte di governare

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