Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2018

CIVILTÀ DEL LAVORO IV • V - 2018 51 DOSSIER si, mostrando non solo una capacità di tenuta ma altre- sì di crescere e di consolidare le proprie posizioni. Senza dubbi, l’industria è stata in grado di resistere alla profonda contrazione dei consumi interni scegliendo di percorrere con decisione la strada dei mercati internazionali, guada- gnando spazio e notorietà anche per il favore e la repu- tazione di cui godono agli occhi dei consumatori globali i vini e i cibi italiani, fra i più desiderati del mondo, come vedremo fra poco. È vero, non sono mancate anche negli ultimi anni acquisi- zioni di imprese e marchi italiani; le più note forse quelle di Parmalat (ad opera della francese Lactalis), di Peroni (da SabMiller, prima di giungere alla giapponese Asa- hi), di Star (da GbFoods, passando per la spagnola Gal- lina Blanca-Agrolimen), di Fiorucci (dalla spagnola Cam- pofrio, che ora fa capo alla messicana Alfa), di Gancia (da Russkij Standard), di Pernigotti (dalla turca i Toksöz), di Grom (da Unilever). Tuttavia accanto ai marchi dei grandi gruppi multinazionali si è consolidata una classe di imprese a capitale italiano o prevalentemente italiano in grado di scalare i vertici dei segmenti di business, di competere nel mercato globale, di crescere anche attraverso acquisizioni all’estero. Solo negli ultimi anni sono da ricordare, ad esempio, le opera- zioni di Ferrero (i biscotti della belga Delacre, le nocciole della turca Oltan, la cioccolata della britannica Thorntons e della statunitense Fanny May), di Lavazza (Carte Noire in Francia, Merrild in Danimarca e Kicking Horse Coffee in Canada), di Segafredo (la portoghese Nuticafés), di Cam- pari (il celebre Grand Marnier), di De Cecco (First Pasta, principale produttore russo). Se dunque è vero che si è avverata una delle previsioni più ricorrenti alla fine degli anni Ottanta, ovvero che il ca- pitalismo italiano non sarebbe stato in grado di seleziona- re e far affermare un grande gruppo diversificato, è altret- tanto vero che nell’industria alimentare del nostro Paese sono emerse e nel tempo maturate imprese in grado di giocare ad armi pari nell’arena dei mercati internazionali. Alcune hanno una storia lunga – nate nell’Ottocento co- me laboratori artigianali di pane o pasta, come botteghe di pasticcieri, come salumerie di paese, come rosticce- rie nel cuore delle città – altre sono ancora giovani, ma le une e le altre sono state determinanti negli ultimi an- ni per diffondere nel mondo la percezione di alta qualità del mangiare e bere italiano. Alcune si fregiano di brand iconici, consolidati nella men- te e nelle scelte di acquisto dei consumatori, altre agisco- no come campioni nascosti: benché il loro nome compaia poche volte nei mezzi di comunicazione e non sia cono- sciuto fuori dagli ambienti di lavoro, vantano giri d’affari di centinaia di milioni di euro. Accanto a grandi gruppi, con- vivono – e sovente hanno beneficiato della capacità delle imprese leader di aprire i mercati e di affermare i prodot- ti italiani nel mondo – molte aziende di medie dimensio- ni, protagoniste di quel Quarto Capitalismo decisivo nel tenere a galla l’economia italiana negli anni della Gran- de Contrazione, così come piccole e piccolissime imprese con posizioni chiave in nicchie e micronicchie di mercato, espressione più autentica di uno degli inimitabili fattori di successo dell’industria alimentare italiana: il legame pro- fondo, autentico, indissolubile, con il territorio di origine. LA STRUTTURA DELLE IMPRESE Secondo i dati dell’Istat nel 2015 si contavano per l’industria » Francesco Izzo L’INDUSTRIA AGROALIMENTARE È STATA IN GRADO DI GUADAGNARE SPAZIO NEL MERCATO INTERNAZIONALE PER IL FAVORE E LA REPUTAZIONE DI CUI GODONO I VINI E I CIBI ITALIANI AGLI OCCHI DEI CONSUMATORI GLOBALI

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