Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2018

CIVILTÀ DEL LAVORO IV • V - 2018 33 FOCUS ti, competitive e innovative in un sistema che accompagnas- se questi cam- biamenti senza rotture sociali. Bene, oggi sia- mo a discute- re di questo te- ma qualche ora dopo che è sta- ta fatta una ma- novra, i cui con- tenuti non sono ancora chiari ma a me appaiono assolutamente contraddittori, peraltro celebrando in ma- niera particolarmente enfatica la cancellazione e i passi indietro sul cosiddetto Jobs Act, negando cioè esattamen- te il punto fondamentale sul quale si aprono la grande partita e la grande sfida che noi abbiamo come Paese: la capacità cioè di renderci protagonisti di una trasformazio- ne sociale e culturale utile a consentire il vantaggio com- petitivo più grande che abbiamo in Italia, consentire cioè alle nostre imprese e alla nostra imprenditorialità, al no- stro capitale umano di creare sviluppo e creare occupa- zione. Perché non c’è niente da fare, non c’è niente che cambi veramente e radicalmente le condizioni del ceto medio e delle famiglie italiane se non la creazione di più posti di lavoro per famiglia. Queste contraddizioni sono fortemente stridenti. Diceva giustamente Patrizio Bianchi: “Non si è mai creato lavo- ro e sviluppo facendo assistenza”, e noi stiamo tornando alla peggiore logica dell’assistenza. Fin dall’inizio abbia- mo sempre sostenuto, e ricordo il dibattito fatto vent’an- ni fa, che fare deroghe per fare investimenti misurabili e produttivi tali da poter rendere più forte il sistema infra- strutturale del Paese e tali da poter rendere più forte la crescita della top-line del Prodotto interno lordo, sareb- bero stati doverosamente e razionalmente ben sosteni- bili e documentabili, e io credo anche accettabili a livel- lo europeo; ma fare interventi in deroga per continuare a fare politiche assistenziali e clientelari è giusto che sia fortemente cassato e negato. E allora il costo di questa operazione è gravissimo per il Pa- ese. Il vero costo non è quello che si legge sui giornali ogni giorno, non è il costo dello spread, che pure è significati- vo perché si tra- duce in manie- ra importante in una bella quanti- tà di interessi da pagare in più. E non è neanche il costo della fles- sione dei titoli azionari, che pu- re hanno brucia- to parecchi sol- di, le Borse però come scendono salgono. C’è un costo che nes- suno legge e di cui nessuno sparla e tanto meno scrive, quindi è un invi- to anche ai signori che leggono e osservano e soprattut- to commentano. Qual è il costo per un Paese come il nostro nel momen- to in cui si perdono pezzi di sistema industriale, nel mo- mento in cui viene meno la fiducia non dei grandi inve- stitori finanziari a livello mondiale, non di chi opera in Borsa e di chi investe sui mercati azionari, ma di chi co- me noi investe in pezzi di competizione e in aziende che restano sul territorio? Qual è il costo se noi in fasi come queste non siamo in grado di attrarre investimenti nostri o di altri Paesi, e che non siano investimenti nell’acqui- sto di marchi o di quote di aziende che già esistono? Per- ché è vero che dobbiamo essere aperti, e noi lo abbiamo sempre sostenuto, alla crescita e allo sviluppo e all’inte- grazione internazionale, però attenzione. Noi continuia- mo a essere un Paese nel quale gli investimenti esteri che arrivano in Italia non sono per la creazione di nuo- va base occupazionale, di nuove imprese, di nuovi asset industriali, sono piuttosto nella logica di consolidamento di aziende esistenti, consolidamento di mercati, conqui- sta di marchi, cosa ben diversa, che mette chiaramen- te in evidenza come la partita di rendere competitivo il Paese, al di là di quella che è la qualità delle imprese, è la partita di questo Paese. Ed è su questo che noi siamo in ritardo. Allora questa ma- novra, nel momento in cui contiene queste contraddizio- ni, è la negazione assoluta della strada maestra che noi dobbiamo saper percorrere: cioè investire per far cresce- re il Prodotto interno lordo del Paese, saper reinvestire nuovamente su noi stessi. •

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