Civiltà del Lavoro, n. 2/2018

DOSSIER CIVILTÀ DEL LAVORO II- 2018 51 indagini di taglio qualitativo, ma un campione equilibrato di aziende, nella convinzione che l’indagine in profondità su questa particolare classe dimensionale di impresa – al di là dell’arbitrarietà della classificazione o del significato che le dimensioni in sé possono ancora rivestire nell’eco- nomia contemporanea – sia estremamente utile. Utile tanto per ripercorrere l’evoluzione di storie che quasi sempre mostrano spiccati caratteri idiosincratici, quanto per identificare le competenze distintive e le scelte ricor- renti che potrebbero aver contribuito in modo significa- tivo a far compiere il salto dimensionale. E si può intuire quale valore possa avere tale risvolto in una fase assai critica per l’industria meridionale. LE IMPRESE MEDIE DEL MEZZOGIORNO E LA QUESTIO- NE DELLA CRESCITA La crisi finanziaria degli ultimi dieci anni, la più severa che si ricordi per l’Italia (e per le sue regioni meridionali in particolare), in realtà, non ha causato il crollo dell’in- dustria del Mezzogiorno. Il quadro strutturale era già da tempo incrinato. I sintomi di asfissia erano chiari e i dan- ni – permanenti, quando tale condizione si prolunga nel tempo – ormai visibili. Senza dubbio, però, la bassa marea ha rivelato in modo impietoso le falle della struttura industriale del Mezzo- giorno. La crisi ha soltanto reso evidenti gli effetti di una rincorsa fallita, il deficit di politica industriale, i limiti di un sistema imprenditoriale non in grado di recuperare un divario già ampio e nel tempo diventato pressoché incol- mabile in un Paese sempre più diseguale. Tale divario – accentuando un carattere di fondo che con- divide con il resto del Paese – è inevitabilmente collegato al deficit di dimensione. Imprese troppo piccole – e sem- pre più piccole se si confrontano i dati in una prospettiva longitudinale – per essere in grado di investire in inno- vazione; troppo piccole per poter riposizionarsi nella ca- tene globali del valore – dove già faticano a resistere gli abituali committenti del Centro-Nord; troppo piccole per guardare con fiducia ai mercati internazionali, quando la domanda locale si è affievolita fino a diventare asfittica. E ancor di più, in un intreccio di causa ed effetti, le piccole dimensioni quasi sempre hanno significato restare ancorati a una struttura di governance familiare, con una presen- za rarefatta di manager non vincolati da legami familiari. Certo, c’è ancora chi sostiene che le piccole dimensioni siano un tratto genetico (e perfino virtuoso) del capitali- smo italiano, che le dimensioni medie nel corso degli ul- timi decenni in maniera costante sono scese dovunque, riflettendo un percorso evolutivo dell’Italia simile ad altri paesi europei, in un mondo dove ormai le filiere produt- tive si sono frammentate e anche se “piccoli” si è forti laddove si è integrati in catene globali del valore. Soprat- tutto, che le dimensioni in sé non contano quando esi- stono differenti opzioni di crescita, per esempio attraver- so il rafforzamento di meccanismi di collaborazione con le imprese della filiera produttiva (crescita relazionale) o riposizionandosi nei segmenti a maggior profittabilità del mercato (crescita qualitativa). Sentieri che, però, non sempre sembrano percorribili da imprese “incastrate” in territori dove, per motivi che non potremo approfondire in questa sede, agiscono quasi sempre da battitori liberi, da giocatori da match di singolare oppure che raramente hanno la forza – proprio perché piccole e sole – di investi- re in innovazione di prodotto, in comunicazione di marke- ting, nel brand, per risalire il mercato e sfuggire alle sab- bie mobili della competizione basata sul prezzo. Ecco, in questo scenario difficile, è certo che la dimen- sione conta ancora come fattore competitivo e la cresci- ta andrebbe intesa non come obiettivo in sé, ma come “una condizione da soddisfare per vincere la concorrenza attraverso l’innovazione in ogni campo”; dove si cresce “per essere in grado di perseguire gli altri obiettivi” (Ar- righetti e Traù, 2011). E ora che la marea sembra tornare e l’economia italiana prova non senza stenti a riprendere il largo – solo nel 2015 il Pil del Mezzogiorno per la prima volta dal 2007 è tornato a crescere – occorre soffermar- si a valutare i danni della tempesta, per comprendere » Francesco Izzo

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