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Peruzzi, dal “Lamaro Pozzani” ad Harvard per studiare la cura dei tumori cerebrali

foto peruzzi piccolaLa prima volta che ha messo piede ad Harvard, Pier Paolo Peruzzi studia ancora all’università. Ultimo anno di Medicina alla Sapienza, capelli lunghi e musica rock nelle cuffiette, per l’estate trova un volo Roma/Boston a prezzi stracciati.  Quattro scali aerei, tre giorni di viaggio: un canguro più che un aereo. Ma ne vale la pena, può vedere con i suoi occhi come funziona un dipartimento di Neurochirurgia in America. Come funziona la Medical School del più prestigioso college statunitense: un percorso di studi da 70mila euro l’anno per gli studenti più fortunati, un sogno per tutti gli altri.

Finita la vacanza, si torna in Italia. C’è da finire gli esami. E anche in fretta. “Mi piace come fanno ricerca in quel dipartimento, io ci torno per preparare la tesi”, continua a rimuginare lo studente originario di Montepulciano tra le mura del Collegio “Lamaro Pozzani” che lo ospita.

Tutto va secondo i piani, dottor Peruzzi?

“Sì, l’anno successivo trascorsi per tre mesi nel Laboratorio di Biologia molecolare per ultimare la tesi. Poi la specializzazione in Neurochirurgia presso la Ohio State University ed oggi sono ancora qui ad Harvard: metà del mio tempo è dedicato all’attività clinica e l’altra metà alla ricerca. E ora sto mettendo su un mio laboratorio di ricerca”.

Per studiare cosa?

“I tumori del cervello: non sopporto l’idea che un organo così affascinante possa essere letteralmente distrutto dal cancro.  In particolare studio il ruolo di piccole molecole chiamate microRna nella regolazione della biologia molecolare del più maligno dei tumori cerebrali, il Glioblastoma multiforme. E naturalmente cerco di trovare un uso terapeutico per queste molecole”.

Quali prospettive le si aprono grazie a questa esperienza?

“Certamente fa comodo mettere Harvard nel proprio curriculum. Fa effetto. Ma in tutta onestà non credo che esista un altro posto al mondo con una così alta attività scientifica e di ricerca, sopratutto nel campo medico e biotecnologico. Dovunque ti giri,  incontri persone brillanti ed estremamente motivate da cui puoi imparare qualcosa. Ci sono lezioni in ad ogni ora del giorno, conferenze ogni fine settimana. Persino nei corridoi si parla di ricerca. E poi per me lavorare qui significa fare veramente quello che ho sempre desiderato: combinare chirurgia e ricerca scientifica. Sento di poter fare davvero della buona scienza”.

Ci sono molti italiani lì ad Harvard? 

“C’è gente che viene da tutte le parti del mondo, anche molti italiani.  Anche nel mio laboratorio ci sono nostri connazionali.  In generale, la maggior parte sono  ricercatori che lavorano in laboratorio e rimangono per un periodo non superiore ai 3 anni. Nel settore clinico, invece, siamo pochi. Vige una sorta di ‘protezionismo’ per cui i medici americani  vengono in qualche modo preferiti agli stranieri. Anche così la società americana esprime il proprio orgoglio per le Medical Schools. In fin dei conti credo che sia una cosa normale”.

Cosa le sembra che manchi al sistema universitario e al mondo della ricerca in Italia rispetto agli Stati Uniti?

“La prima cosa che serve per la ricerca sono i soldi. E storicamente l’Italia non primeggia in questo tipo di investimenti.  Credo che al modello italiano manchi la capacità di vedere nella ricerca un’attività produttiva e non una mera elucubrazione intellettuale fine a se stessa. In America quasi da ogni progetto di ricerca parte un brevetto o una start-up. Boston è piena di imprenditori del settore che hanno iniziato da idee nate in un laboratorio. E poi c’e’ proprio il culto del mentoring: sono i giovani qui, opportunamente supervisionati e guidati,  a costituire la vera forza produttiva dell’università. Producono idee e le concretizzano. I ‘baroni’ esistono anche qui, ma il titolo se lo guadagnano sul campo. E magari sono anche premi Nobel, quindi neanche te la prendi troppo se un po’ spadroneggiano. La presenza di mostri sacri non impedisce, anzi facilita,  il fermento intellettuale delle nuove leve”.

Lei sta facendo davvero una bella carriera. Che cosa le resta dell’esperienza al “Lamaro Pozzani”?

“Vivere gli anni dell’università all’interno del Collegio mi ha permesso di godere di un continuo e notevole stimolo intellettuale e culturale. E’ stato il primo posto dove sono stato ammesso tramite una selezione, cosa che ha fatto nascere in me una notevole autostima. Di quegli anni mi restano care amicizie e il ricordo del mitico concerto di Natale 2002, in cui i ‘Rulpianoidi’, cioè il gruppo rock interamente costituito da noi studenti , si esibirono fino a notte fonda. Fu la dimostrazione che si può essere ‘secchioni’e allo stesso tempo capaci di divertirsi da matti”.

Ha qualche consiglio da dare ai ragazzi che sono oggi al Collegio?

“Più che un consiglio, un invito, chiaramente rivolto a quelli del mio settore: chi ha un progetto, venga nel mio laboratorio ad Harvard e proviamo a coltivarlo”.​

 

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