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Giovanni Raineri: una grande capacità di fare gruppo

di Cecilia Dau Novelli (Professore di Storia contemporanea all’Università di Cagliari)

Giovanni Raineri

Giovanni Raineri

Grande forza morale, duro lavoro, la capacità di elevarsi dal nulla, erano qualità comuni a molti imprenditori italiani. Nel caso di Giovanni Raineri c’era anche un’altra caratteristica rara: quella di saper fare gruppo, di coinvolgere e motivare per costruire un’azione collettiva. Questo si coglie sia nell’organizzazione della Federazione dei Consorzi agrari, sia nella Federazione dei Cavalieri del Lavoro. E poi l’idea della formazione tecnica dei giovani capaci e meritevoli, ma non dotati dei mezzi economici per studiare.

La Federazione nacque, come ente morale, nel febbraio 1925 quando già Raineri se ne occupava da qualche anno. L’articolo 3 ne stabiliva gli scopi: “Tenere alto il culto e la fede nel lavoro”; coordinare l’azione dei Gruppi regionali; aiutare i Cavalieri in difficoltà finanziarie; assegnare borse di studio ai figli dei contadini e operai morti sul lavoro. Veniva anche stabilito un contributo annuale per ogni singolo socio, allora di 100 lire, mentre gli organi deliberativi e direttivi erano così definiti: Assemblea generale, Consiglio direttivo, Giunta esecutiva. Tutti i soci facevano parte dell’Assemblea, il Consiglio era composto dai presidenti dei Gruppi e da dieci rappresentanti eletti dall’Assemblea, la Giunta dal Presidente e dai quattro Vice-presidenti. Il Presidente e i Vice-presidenti erano eletti dal Consiglio. Nel complesso un sodalizio molto democratico, proprio quando il fascismo stava sistematicamente eliminando tutti i baluardi della democrazia italiana per sostituirli con un sistema di designazioni e di nomine dall’alto. All’inizio della storia dell’ordine era nata un’Associazione poi trasformata in Federazione, perché in qualche modo l’Associazione era sembrata troppo accademica, mentre una Federazione era – a parere di Raineri nella relazione introduttiva del 22 maggio 1924 –“un organismo più saldo e ben costituito per coordinare la grande forza economica che i Cavalieri del Lavoro rappresentano”. Una Federazione era anche espressione non di singole entità private, ma di un complesso di mondi produttivi, quali erano quelli dei vari Cavalieri del Lavoro: imprenditori che non rappresentavano solo se stessi, ma tutta la loro azienda.

Non meno importante la fondazione dell’Archivio Storico per raccogliere le istruttorie di nomina dei Cavalieri stessi. Approvato nell’Assemblea del 21 novembre 1926 con un’appendice all’articolo 3 dello Statuto era spiegato dallo stesso Raineri: alcuni imprenditori più organizzati scrivono e raccolgono notizie sulla loro attività, altri invece non scrivono nulla e non conservano nulla. “Vi sono Cavalieri del Lavoro che, senza intendere di fare atto di vanità e senza false modestie pongono in luce l’opera loro. Vi sono alcuni altri invece che, e ciò fanno al semplice scopo di accreditare le loro aziende, ovvero sembrano dimostrare col loro assenteismo di non tenere nel dovuto pregio l’onorificenza di cui sono insigniti”.

L’Archivio avrebbe dovuto raccogliere e conservare notizie anche biografiche in un casellario su ciascun Cavaliere. A questo proposito per una migliore conservazione futura dell’Archivio sarebbe stato opportuno – secondo il Presidente – trovare una sede definitiva da acquistare dove sistemare la Federazione e l’Archivio Storico. Annesso allo Statuto della nascita, c’era anche quello della Fondazione “per l’assegnazione di borse di studio a figli di operai e contadini morti sul lavoro, con preferenza agli orfani dei decorati della “Stella”. E qui si scorgevano, senza dubbio, l’anima e il cuore dello stesso Raineri che, avendo vissuto sulla sua pelle la condizione di orfano, aveva potuto studiare solo grazie a una borsa di studio. La Fondazione, intestata a Sua Maestà Vittorio Emanuele III, si occupava di raccogliere le donazioni per le borse, di amministrare il patrimonio e di assegnarle. Ogni elargizione di 50.000 lire si intendeva sufficiente a costituire il capitale, il cui reddito sarebbe servito alla istituzione di una borsa, intitolata per sempre al nome del donatore. Al termine dei sei anni di studio, la stessa borsa passava a un altro ragazzo. Un apposito Consiglio di amministrazione, costituito dalla Giunta esecutiva della Federazione e da una Delegazione di donatori, si occupava della gestione dei fondi e delle borse. Certamente, occuparsi degli orfani non era una novità e neanche devolvere dei soldi alla loro formazione, ma era del tutto nuova la cornice ideale in cui veniva fatto. Per la prima volta di ispirazione laica e orientata agli studi tecnici. Raineri era un liberale, con un forte impianto sociale, che intendeva offrire ai più meritevoli la possibilità di emergere. In una delle prime riunioni del Consiglio di amministrazione della Fondazione, lo stesso presidente Raineri ne illustrava chiaramente lo scopo: “L’idea della fondazione di un’opera di assistenza sociale essenzialmente intesa a sollievo di quella che è tra le più pietose condizioni in cui possono essere ridotte le famiglie dei lavoratori, quando cioè il loro capo sia rimasto vittima dell’opera stessa donde traeva i mezzi di sostentamento per sé e per i suoi cari, sorse in seno al Consiglio direttivo della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, nel 1923 ed io ne assunsi la presidenza”.
Come già la stessa esperienza di vita di tanti imprenditori italiani dimostrava – e contro tutte le regole del determinismo sociale – la maggior parte degli orfani, educata e formata in un ambiente diverso da quello di origine, li portava a elevarsi al disopra della media. Le virtù di riferimento, come per la maggior parte degli imprenditori dovevano ancora essere la “rettitudine adamantina” e la “volontà indomita” perché come aveva scritto, in un libro di grandissimo successo, ancora nell’Ottocento Michele Lessona, “la volontà è potere”.

Raineri morì il 29 novembre 1944 a Roma nella città da poco liberata, avendo visto la fine – come ricorda nelle sue ultime volontà – del Regime fascista. Dopo 86 anni di vita aveva attraversato tutta la storia italiana, dalla formazione del Regno d’Italia, al fascismo e alla liberazione, nato suddito del Ducato di Parma era morto cittadino dell’Italia liberata. Avendo sempre cercato di onorare il lavoro e la Patria. “Se il lavoro era la mia passione e mi dava conforto, uno intenso amore per la Patria ha sempre animato i miei atti”. E, aggiungerei, essendosi intensamente dedicato all’organizzazione degli imprenditori e alla formazione delle nuove generazioni.

(Articolo pubblicato su Civiltà del Lavoro n. 6/2014)

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